Quando camminerete sulla
terra dopo aver volato,
guarderete il cielo perché là
siete stati e là vorrete tornare
Leonardo da Vinci
San Siro, 8 giugno 1990. Argentina-Camerun è la partita inaugurale del mondiale italiano. Minuto 66. L’arbitro fischia un fallo sul lato corto dell’area per gli africani. Dalla sinistra. Quattro minuti prima il severo fischietto francese Vautrot aveva espulso il difensore africano Andre Kana-Biyik per un fallo sulla trequarti argentina, ai danni della freccia bionda Caniggia.
Con il Camerun in dieci, tutti sulle tribune capiscono ciò che sta per accadere: è fin troppo prevedibile. L’Argentina vincerà la partita. Sono i campioni in carica. Hanno Maradona, il più grande. I leoni indomabili, fin lì interpreti di una gara generosa, col passare dei minuti si sarebbero trasformati in quelle tristi fiere dal cuore colmo di malinconia che si vedono al circo. Ruggiscono, incutono timore, ma poi obbediscono al domatore.
Ancora il minuto 66. Fischio dell’arbitro. Parte il pallone, un traversone come tanti, Makanaki lo spizza al centro e crea una strana traiettoria. Il pubblico è spaesato, e per un attimo perde il contatto visivo con la palla. Ma eccola lì in mezzo all’area, che schizza verso l’alto. La palla sale e poi sale ancora. Sopra l’area: quattro o cinque metri di altezza. Come una stella, un nuovo Sole dal quale dipende la vita sulla Terra.
Alcuni tifosi si coprono gli occhi. La sfera brilla di una luce accecante. Lei, nuova divinità pagana, da quella posizione fissa ogni dettaglio, ogni singolo giocatore, ogni spettatore. Guarda i difensori dell’Argentina alzare la testa, terrorizzati. Osserva l’attaccante africano François Omam-Biyik, maglia numero 7, che corre e ricambia il suo sguardo. Lui è esattamente sotto di lei e, al contrario dei sudamericani, non ha paura.
La palla scruta negli occhi scuri e profondi del centravanti e vede i campi di ghiaia del Camerun, che il giovane François ha arato prima di indossare la maglia arancione del Laval. La palla si sente desiderata. François la brama più di chiunque altro. Lui sa che lei lo sta guardando. Sa di essere il prescelto.
È in questo momento che si compie uno dei gesti tecnici più impressionanti della storia del calcio. Omam-Biyik non aspetta che il pallone scenda, ma gli va incontro. Salta e comincia a salire. Con un’elevazione incredibile, sospinto dalla forza della consapevolezza di quel momento, arriva a raggiungere la sfera a tre metri di altezza. E lì si ferma. Rimane sospeso in aria, e per qualche frazione di secondo non si muove. Contro la gravità. Contro la fisica. Contro il buon senso.
L’attaccante guarda la palla. E’ così vicina. Dio quanto è bella, mai l’aveva vista a tale altezza. Mai l’aveva amata così tanto. Lei gli dice: “Colpiscimi”. Lui obbedisce. Omam-Biyik vede già quello che succede, prima che succeda. Per nulla al mondo quella palla non finirà in rete. Pumpido, il portiere argentino, è impotente. Le mani s’irrigidiscono. Diventano pietra. La palla è infuocata di un amore ardente. E il suo amante si chiama Oman-Biyik. Non c’è posto per altri. Non ora. Rete. Il camerun ha segnato.
In quel momento Oman-Biyik diventò il simbolo di un continente, e con quel colpo di testa fece capire al mondo che l’Africa, d’ora in avanti, avrebbe fatto parte del grande calcio. Nei giorni successivi alla partita, nel febbrile stupore suscitato dal gol, alcuni sostennero che le parole Omam e Biyik in un’antica e dimenticata lingua del corno d’Africa volessero dire Uomo e Volo. Omam- Biyik: l’uomo volante.
Altri scrissero che il Camerun avrebbe vinto i Mondiali e che lui sarebbe diventato il capocannoniere della competizione. Purtroppo fu presto chiaro a tutti che per l’attaccante quella prodezza non sarebbe stata un punto di partenza verso nuove imprese memorabili. Nel torneo, soffocato dai gol e dal carisma del compagno d’attacco Roger Milla, Francois non segnerà più. Dopo la rassegna italiana continuerà a giocare nel mediocre campionato francese e poi addirittura in Messico nel Club America.
Come un moderno Icaro, in quel volo Omam-Biyik si era avvicinato troppo al sole. Le sue ali, poderose nel pomeriggio di San Siro, erano ora fragili come ramoscelli, bruciate per sempre. O forse no?
Un pomeriggio dell’autunno del 1996, Omam-Biyik riceve una chiamata dal suo procuratore: “Francois, vuoi giocare in Italia?”. Il Lecce è interessato a lui. Ma quando sembra che la trattativa debba concludersi con la firma del contratto, il club pugliese ci ripensa e annulla il trasferimento. Forse si accorge che il camerunense non è adatto a un campionato difficile come quello italiano. Il sogno di giocare nel paese che gli aveva regalato la fama mondiale sembra finito ancora prima di iniziare.
Il destino però regala svolte inaspettate. Così, a gennaio del 1997, appena qualche mese dopo il mancato passaggio al Lecce, una nuova sfida si offre al leone indomabile. Tra lo scetticismo generale dei tifosi doriani, il centroavanti africano sbarca a Genova, a disposizione del maestro di Novi Sad, Vujadin Boskov.
L’allenatore chiarisce subito: “Io no conosco lui, aspetto di vederlo all’opera per giudicare. Certo, per campionato italiano occorre essere davvero al massimo per fare bene”. Mantovani aveva pensato a lui per rinforzare l’attacco della Samp. A 32 anni Omam-Biyik era l’uomo giusto per la rosa blucerchiata? “So di essere la terza punta, alle spalle di Montella e Signori, e spero di dare un contributo importante quando ce ne sarà bisogno” dichiarava, carico di aspettative, alla sua presentazione.
Dell’esperienza doriana restano sei presenze, nessuna da titolare, in sei mesi. Zero gol. I tifosi ricordano ancora i suoi salti apparentemente insensati in giro per il campo. Ancora accecato dalla visione di quella palla infuocata, provava a replicare il gol all’Argentina in ogni occasione, quasi fosse la caricatura di sé stesso. Lo sguardo dell’ormai vecchio centravanti, in quei mesi, si posava spesso sul mare di Genova, proseguiva fino all’orizzonte e poi si elevava verso il cielo. E in quella direzione i suoi occhi si fermavano per minuti interminabili, memori di quella volta in cui, in volo, avevano osato guardare il sole da vicino.
Finita l’avventura italiana, Omam-Biyik ritorna in Messico e chiude la carriera in Francia nel 2000. Dei suoi ultimi anni da calciatore si ricorda un gol, annullato per fuorigioco, nel deludente mondiale del ’98 e nient’altro. Da quel salto, il leone è sembrato non scendere più. Forse è ancora là, immobile, incurante dell’abisso sotto i suoi tacchetti, che continua a cercare Lei.