La trequarti avversaria in teoria è identica per dimensioni, rasatura dell’erba ed umidità, alla propria trequarti.
Ma questo è un modo di vedere parziale, errato.
Per l’attaccante, la trequarti avversaria non è una porzione di campo, ma il campo intero.
Esattamente come i portieri, quando gli attaccanti si ritrovano fuori dal loro raggio d’azione si sentono male, spaesati e disperati come bambini. L’allenatore li guarda sconsolato e, con una carezza, li invita a limitarsi a fare pressing, a dare una mano alla squadra. L’attaccante che torna indietro oltre la linea del centrocampo si trasfigura e scopre così che esiste una squadra, un mondo fatto di complessi rapporti, paura di sbagliare, di esporsi troppo. Vede il volto teso del mediano rubapalloni – sempre allegro nello spogliatoio, sempre umile, sempre pronto a chiacchierare con il magazziniere – che improvvisamente fa la faccia dura e colpisce con ogni parte del proprio corpo il corpo altrui. Vede gli efebici e ossuti spilungoni della difesa saltare in aria a turno, come torri in fiamme durante un assedio, buttarsi per terra cercando di interrompere e respingere, rompere e distruggere idee, proposte, tentativi d’attacco. Com’è brutto difendere, com’è brutto distruggere.
La propria squadra dall’altra parte della linea del centrocampo, in pieno ripiegamento difensivo, diventa per l’attaccante disorientato un inferno che tocca ad altri ma che è speculare al proprio. Vede esattamente la sorte infame che tocca a lui, ma rovesciata, inflitta stavolta da quelli che considerava propri amici, colleghi, compagni di lotta. Vede la realtà per quella che è, venti giocatori più due disadattati vestiti con maglie diverse, che si torturano a vicenda. Sente l’insensatezza di tutto questo, scrive libri, poesie, partecipa a cortei umanitari, pratica l’amore libero e dà alla pace una possibilità.
Poi, improvvisamente, uno squarcio nella sua visione illuminata. Il regista, un tipo scuro in volto che cova antichi rancori e li nasconde sotto un velo di saggezza, effettua un lancio calibrato oltre la linea del centrocampo. L’attaccante capisce che è finita la ricreazione. Quella palla non chiede altro che di essere catturata. Si guarda intorno, tutti lo stanno osservando, aspettando, temendo: comincia quella che davvero si può chiamare “azione”.
L’attaccante allunga la falcata istintivamente, supera di nuovo la linea del centrocampo, acciuffa come capita la palla, si lancia verso la porta avversaria, le cose tornano ad essere come sono, i buoni contro i cattivi, i nostri contro i loro, le urla per avere un po’ di attenzione, perché i propri scatti non finiscano ignorati da compagni distratti o paurosi. Là, alle proprie spalle, c’era un reparto difensivo, un sistema di gioco, un modulo, un centrocampo, un dispositivo tattico. Davanti ci sono singoli individui che fanno reparto da soli e ci stanno benissimo. Padroni a casa loro.
Ma da soli, dopo un po’, si annoiano. A volte infatti preferiscono condividere l’appartamento con un altro, di solito molto diverso, sia fisicamente che mentalmente. Non l’hanno scelto, ma devono imparare a conviverci.
Fanno coppia, gli attaccanti.
Quando sono addirittura in tre vuol dire che in realtà qualcuno sta giocando con le parole e, sotto sotto, due di loro partono da molto dietro, hanno compiti diversi, fanno la settimana corta, lavorano altrove e ogni tanto vengono a casa, giusto per dormire, per finire la giornata e l’azione.
Ovviamente nessuno in casa parla d’altro che di gol, quanti ne hai fatti, quanti me ne hai fatti fare, quanti ne hai sbagliati, quanti di quelli che hai fatto sono stati decisivi, qual è la tua vittima preferita, come ti piace di più farlo, sopra o sotto, di testa o rasoterra, davanti o dietro, nell’area piccola o con conclusione da fuori. Discorsi triviali, volgari, di una concretezza e di una semplicità spiazzanti.
Solo i portieri capiscono, frequentano gli stessi bar e gli stessi discorsi, ma li ascoltano in silenzio, sorseggiando Unicum, col bavero alzato, sperando di non essere riconosciuti.
Ma ecco gli attaccanti che arrivano:
Cesarec e Hubnik
Non esiste coppia più ideale di Danijel Cesarec e Michal Hubnik. Forse perché sono la stessa persona, ma non sanno di esserlo.
In un paradossale pomeriggio di agosto del 2003, tuttavia, ne hanno avuto il sospetto. Si giocava FK Pribram contro Sigma Olomouc, quasi ininfluente partita di inizio campionato in Repubblica Ceca. Al settantaduesimo minuto, su un pareggio destinato a non cambiare più, la promessa ventiduenne Hubnik entra al posto di un attaccante del blasonato Sigma, per farlo rifiatare. All’ottantaseiesimo, nel tentativo di vincere la partita, il Pribram butta nella mischia il ventitreenne Cesarec, un neo-acquisto croato che ha solo dieci minuti di campionato nelle gambe. I due attaccanti saranno lontani tra loro per tutti i quattro minuti in cui condivideranno il campo. In luoghi opposti, ognuno a casa sua, nella trequarti giusta, l’unica possibile, sgomitano, lottano e, infine, si arrendono al pari. Prima di uscire dal campo, si passano accanto, per un istante si guardano. Hanno la stessa faccia, la stessa espressione, gli stessi capelli, si muovono allo stesso modo.
Siamo la stessa persona, pensano.
Poi entrano nel tunnel e spariscono ognuno per proprio conto. In quel tunnel, quel lunghissimo spogliatoio di dieci anni di carriera da attaccanti normali, troveranno un’eterna ripetizione dei loro quattro minuti insieme. Una lotta per non sparire, uno sforzo sovrumano per dare un senso alle proprie qualità. Qualità in cui entrambi credono fermamente ma senza esagerare, e si riconoscono in questi aggettivi: solido, massiccio, tonico, acrobatico, astuto, concreto, quadrato, tosto, serio, misurato. Tutti preceduti dall’avverbio “mediamente”. Non alti, non bassi. Non dotati di muscolatura esplosiva, ma niente affatto mingherlini.
Se solo potessero, toccherebbero la palla in modo pulito, ma succede molto raramente durante una partita. Quando lo fanno c’è sempre chi è pronto a giurare che con la palla al piede ci sanno fare, come piccoli Ibrahimovic. Ma sono considerazioni a cui entrambi danno poca importanza, perché è come dire che il tecnico della lavatrice fa anche dei bellissimi autoritratti. Non è per questo che lavora. Non è grazie a questi che sopravvive.
Sono elastici, spalle basse e rilassate ma nervi pronti a scattare quando c’è da prendersi responsabilità in area di rigore. Hanno la caratteristica di non essere mai immarcabili. Anzi, amano essere marcati, si sentono vivi solo con un difensore incollato, non cercano gli spazi, non vogliono la libertà, come muli al gioco preferiscono il giogo. Compiono azioni molto strane: spizzicano con la nuca, sbucano in una selva di uomini, tagliano sul primo palo, nei momenti di umore allegro fanno salire la squadra, e poi leggono e rileggono il “Frasario del buon Zampagna”, pieno di citazioni creative e semplici, con quel senso della terra e del popolo che rendeva artistiche tutte le giravolte di quel centravanti e dei suoi emuli: più che un vate, Zampagna è il loro Frate Indovino.
I Carneadi Hubnik e Cesarec provengono dai bassipiani della Slavonia e dalla provincia di un regno decaduto. Hanno provato a lasciare il segno, ma senza farlo apposta. Cesarec, appena meno cupo dell’altro, ha cercato di nascondersi un po’ in giro, Grecia, Repubblica Ceca ed Israele. Poi ha chiesto scusa ed è tornato in Croazia.
Hubnik, essendo la stessa persona, ma vagamente più tormentato, ha scelto invece di restare più in disparte che poteva nella propria carriera, ha puntato forte sulla Repubblica Ceca ed ingannando tutti con i suoi silenzi e la sua caparbietà è arrivato anche in nazionale. Poche occasioni però, mezze bocciature, zero gol. Unica botta di vita è stata un’avventura in Polonia, dove l’hanno celebrato come una rockstar. Attonito, al centro dell’attenzione, non è durato più di un anno. Poi ha chiesto scusa ed è tornato in Repubblica Ceca.
I gol che hanno segnato quest’anno non superano le due dita di una mano.
Il loro ruolo è tornato ad essere quello di quando erano promesse, panchinari che entrano, con tutto il loro bagaglio tecnico di piccoli Zampagna, contadini del gol, per sistemare le cose, per riportare un po’ di fertilità in partite in cui non cresce più erba. La loro casa è una fattoria dimenticata, la loro trequarti è il posto ideale per aspettare il triplice fischio, allargare le braccia ed arrendersi al risultato finale.
Lafata e Rafael
Da più di cinque anni, ormai, i giornalisti sportivi italiani sono imbarazzati dalla presenza inossidabile di Totò Di Natale in serie A. Non avendo mai vissuto un reale declino, soprattutto per quel che riguarda i gol, Di Natale non riceve più alcun aggettivo, alcun vezzeggiativo, alcun elogio nuovo. Qualcuno ha trasformato “il Solito” in “l’Eterno”, anche con una punta di fastidio, e da allora Totò è il cannoniere trentasettenne più solo ed ignorato d’Italia. Fuori dal mercato, fuori dalle agendine di direttori sportivi, fuori dagli schemi tattici, fuori da ogni discorso di eventuale esclusione dai titolari.
Incarnazione perfetta di un Carneade con le rughe di una Cariatide, Di Natale ha molti fratelli sparsi per l’Europa, piccoli, sguscianti, tecnici, cinici, mesti, taciturni, abbandonati e quindi nervosi.
Il Ceco David Lafata ed il Brasiliano Rafael Pires Vieira sono due di questi.
Lafata, come Totò, ha accumulato un buon numero di presenze in nazionale, con 8 gol all’attivo. Ma è stato convocato solo per un Europeo, quello polacco-ucarino del 2012, a trent’anni, conquistato grazie ad uno spareggio. Lafata è entrato nel primo match contro la Russia, sotto per 4-1, a cinque minuti dalla fine al posto di un ormai inutile Milan Baros. Quella Repubblica Ceca finirà addirittura prima nel girone e solo un colpo di Cristiano Ronaldo la eliminerà ai quarti. Ma David Lafata non avrà ulteriori chance, seduto in panchina, con i piedi che penzolano e non raggiungono del tutto l’erba. Non è certo un nano, ma si sente piccolo.
Eppure David, come Totò, è un recordman: con 134 gol in carriera è il miglior marcatore di sempre della Repubblica Ceca. Nel FK Jablonec, la squadra dove ora si riposa in panchina il Carneade Hubnik, aveva una media di 1.6 gol a partita, il che ridotto a termini di gioco significa un gol più almeno sei tiri in porta, o un tiro che colpisce contemporaneamente sei volte il palo. David è una furia, piccolo, si gira, si volta, non fa mai più di un dribbling e solo per sistemarsi il pallone, per mandare a vuoto il marcatore e rubargli mezzo metro. Il piede è attaccato all’occhio, appena vede la porta tira. Ed è utile per tutti noi perché ci fa capire come invecchia un perfetto Carneade: quando ai primi record raggiunti nessun operatore di mercato agita l’acqua, si capisce che quell’acqua è uno stagno e non certo un mare; quando poi i record continuano e in Europa l’eco della punta micidiale solleticano l’appetito di una piccolissima squadra greca e, al massimo della risonanza, dell’Austria Vienna, ecco che il Carneade inizia a mettere radici a casa propria, a dimostrare amore per la patria.
“Sì, Lafata è un buon profilo, ma non so se si adatterebbe al calcio francese.”. “Non so se qui da noi al Rayo Vallecano serve uno così”. “Non so se noi del Cagliari possiamo fare uno sforzo per un giocatore che alla fine ha dimostrato di fare gol solo a casa sua”. “Lafata? Noi dell’Apollon Limassol in attacco stiamo bene così”.
In realtà della patria non gli importa nulla.
Per lui, sordo ad ogni complimento, cinico e rassegnato di fronte alla mancanza totale di interesse nei suoi confronti, abituato alla sfiducia dei direttori sportivi, abita nella trequarti avversaria, sempre a venti metri dal portiere senza volto, unico riferimento della sua vita di Carneade. Passano gli anni, non smette mai di segnare, ma si scopre Cariatide. La stima della gente del posto lo fa sentire così piccolo, senza sfogo.
Rafael Pires Vieira, nato a Criciuma nel 1978, se leggesse questo medaglione di David Lafata, forse alzerebbe la cornetta del telefono e da Helsinki, dal suo bilocale con televisione sempre accesa a volume troppo alto, veranda e piante grasse, farebbe una lunga chiacchierata internazionale con quel vecchio goleador, bloccato a Praga.
Rafael è detto “Angelo”, a quanto pare per colpa di una canzone del compositore finlandese Pekka Ruuska “Rafaelin Enkeli”, L’Angelo di Raffaello, che diventa così una corona metafisica per una punta che, comparsa dal nulla ad Helsinki nella seconda metà degli anni Novanta, si è talmente dedicata all’amore per la Finlandia che è diventato (va detto, in quindici anni di permanenza nella Veikkausliiga) il secondo marcatore di sempre nella storia di questo campionato, il primo tra quelli in attività, visto che il re, un russo di nome Popovitch, si è ritirato due anni fa.
I gol sono 133, uno in meno di Lafata. Fisico traditore, sia di spalle che di fronte sembra solo un tizio grosso, ma di profilo svela improvvisi ed innaturali rigonfiamenti a partire dal petto fino alla mascella. Doppio e triplo mento rendono la sua corsa a testa bassa pesante e pazza come quella di un toro che corre verso il macello che lo ucciderà.
A trentasei anni la trequarti avversaria è diventata una labirintica serie di corridoi, piazzette, vicoli, aperture verso il cielo e strettoie in cui incontrare il pallone segretamente, mentre il difensore bigotto è distratto. Non è uno che sa fare tutto, in compenso sa tutto. La sua trequarti è un villaggio di cui è tiranno, spia e ribelle. Chi lo guarda da fuori pensa anche che ne sia prigioniero. Un giorno di ottobre di cinque anni fa, una partita persa 2-3, Rafael segna un bel gol di testa portando in vantaggio il suo Lahti, battendosi il cuore con due colpetti da duro. Qualche minuto dopo, sugli sviluppi di un calcio d’angolo, si scatena una mischia in area, a due centimetri dalla linea di porta, il pallone si ferma sui piedi di un suo compagno che la scaraventa in rete senza complimenti. Rafael gli corre incontro per festeggiare.
Si tratta di Jari Litmaanen, il più grande calciatore finlandese della storia, alla partita d’addio. A 38 anni gli ha fatto vedere come si fa.
Rafael si lancia all’inseguimento di Popovitch e digita una notte sì ed una no il numero di Lafata. Una volta arriva finalmente all’ultima cifra ed aspetta. “Halò?”.
Inutile e Nwankwo
Simeon Tochuckwu Nwankwo detto “Simy” è il più giovane dei nostri Carneadi. Ha soli ventidue anni, è nato a Lagos, il che vuol dire poco, visto che la capitale nigeriana è gigantesca e non si sa bene in quale punto preciso di questa metropoli perennemente bagnata dalla pioggia sia mai venuto fuori un oggetto simile.
Lunghissimo, non tanto per l’altezza, comunque di centonovantacinque centimetri, ma per la magrezza che rende robotica, elettronica la sua figura e quindi minacciosa, assassina. La sua falcata consiste nell’incassare la testa nel petto, roteare le braccia, come per sfuggire ad un bombardamento e correre senza guardare gli avversari, puntando unicamente al pallone. Una volta arrivato alla sfera, i due non hanno niente da dirsi, vengono molto presto ai ferri corti e cominciano ad allontanarsi l’un l’altro con violenza, frenesia, isteria. Simy è nato in un posto dove secoli fa, l’Oba degli Yoruba vendeva gli schiavi ai portoghesi ed ai portoghesi è finito, in un impeto sconosciuto ai più, forse per vendicarsi. Passato dalla squadra del Portimonense, a due chilometri dalla Praia da Rocha, che lui non ha mai frequentato per timore delle alte onde e dei commenti delle ragazze, è surfato via verso il Gil Vicente, direttamente nella prima divisione, e si è presentato bene, dopo la diffidenza iniziale. Due gol al Boavista, un altro ancora la settimana dopo. Questo è forte, dicono in molti, poi due mesi di litigi furibondi con la palla, risatine dei difensori avversari, autoaccuse di razzismo, infine il ritorno al gol: spiccioli di gloria ed una sensazione di intoccabilità tra i titolari che è più segno di paura che non di rispetto.
Simy, in gergo tecnico, è nato per aggredire lo spazio. Non sa fare boa, non sa saltare più in alto degli altri. Lui si limita a spingere in avanti tutto, palla, campo, tempo, acqua, aria, fuoco e terra. Non è contento se non vede qualcuno cadere, sorpreso dalla sua falcata. Ha esigenze ridotte, non vuole diventare un campione, non desidera avere mercato. Sogna, questo sì. Riposa e sogna e questo gli fa bene. Avrebbe tutto il futuro davanti, ma qualcuno vede nel suo accontentarsi, nella sua serenità, nella sua pazienza, un timido sintomo di quello che forse agli osservatori delle grandi reginette portoghesi è apparso subito chiaro: “Olha, este gajo pareçe um Carneade”.
A condividere il caos generato dalle sue scorribande, non può che esserci un uomo d’ordine, pulito, pettinato, profumato, bianchissimo, persino biondo, eppure contenente in sé un germe meridionale, un atomo di povertà, antica, senza tempo: Antonio Inutile. Casertano di origine, finlandese per il 99% del suo DNA. L’un per cento se lo tiene stretto, è quello che rende speciali le sue giravolte normali, al limite dell’area di rigore. Lui gioca lì, nel suo IFK Helsinki, dopo aver girato un po’ di Finlandia e dopo aver fallito miseramente un tentativo di rinascere fuori dalla Scandinavia, in Ungheria, nel mediocre Lombard-Pàpa. Antonio fa questo, prende palla spalle alla porta, la difende con eleganza e si gira rapido per concludere a rete. Che sia in area di rigore, di poco fuori, sulla fascia destra o sinistra, lui non cambia registro. Si impone un passo elegante, si autoconvince di averlo, desidera con tutte le forze impressionare per la classe, è una seconda punta che ama ostentare. Dal mattino al risveglio, fino all’ultimo tweet prima di andare a dormire, mai senza prima vedere un buon film di Leonardo Pieraccioni, che gli ha consigliato qualche vecchio amico del Pescina in cui provò a esordire da giovane speranza. Vana. Inutile a volte, quando era l’idolo del Vassa, sfidava il destino con una maglia numero 10. C’era il 10 e, sopra, il suo cognome. Del Piero era il grande assente del suo gioco, il fuoco sacro a cui sacrificava ogni posa, ogni finta impostazione.
Non ha paura di lanciarsi in sforbiciata se gli arriva il cross giusto, non disdegna il “gol alla Del Piero” se da posizione defilata decide di accentrarsi: ha la sfrontatezza di Arturo Di Napoli, la grinta di Rolando Bianchi e la fame di successi di Palladino. La sua sposa è finlandese, la sua casa è finlandese. Quando l’Italia ha vinto contro l’Inghilterra nella prima illusoria partita al mondiale brasiliano, ha twittato qualcosa di diplomatico e nel contempo euforico su Supermario Balotelli e sulla bravura di Prandelli. Tutto nella sua carriera cristallizzata, nel gelo del suo estro che più passa il tempo e più lascia spazio all’autoironia, lascia supporre che questo Carneade speri in una convocazione della nazionale, magari il giorno del suo addio, con l’Orchestra Italiana assiepata sugli spalti.
La sua zona d’azione è una pista di ghiaccio dove ballerini si esibiscono e si contorcono in eleganti e sterili tarantelle, mentre il giovane gigante ossuto Simmy scivola a pancia in giù, ad occhi chiusi, verso un futuro vuoto, di vetri rotti e silenzio.
Lo stesso vuoto che domina la casella dei trasferimenti relativa ad Antonio Inutile.
Dal primo gennaio sembrerebbe stato ceduto dall’IFK Helsinki.
A chi, nessuno lo sa.
Qui la prima parte della saga Carneadi e cariatidi: difensori
Qui la seconda parte della saga Carneadi e cariatidi: centrocampisti