Chiamatele leggende metropolitane, anche se si svolgono a Piacenza o Messina. Chiamatele chiacchiere da bar, chiamatele scritte nei cessi degli autogrill. Chiamateli bigliettini passati furtivamente fra i banchi di scuola. Chiamateli pettegolezzi, chiamatele maldicenze. Chiamate quel tassista un mitomane, un pallonaro.
Eppure quel prurito non ve lo toglierete mai.
Torino, 1991. È una delle prime volte che qualcuno usa le parole “chiappe chiacchierate”. Sono riferite a un giocatore spagnolo del Toro. La vittoria in Mitropa, lo spumante. Le mani si allungano sui jeans con toppe Naj Oleari di un compagno. Il compagno ha un nome molto noto, ma non è che un discreto centrocampista nel giro della nazionale. Poco dopo verrà ceduto, proprio a causa di quella serata e di una eccessiva familiarità con lo spagnolo.
Genova, 1991. Lo scudetto conquistato, i capelli tinti di giallo. Beppe chiede la casa in prestito a Gianluca. Gianluca dice a Roberto: “facciamogli uno scherzo, andiamo a vedere chi si fa Beppe”. Gianluca e Roberto arrivano a casa di Gianluca. Aprono la porta, sentono l’affanno, odorano i fumi, percepiscono le vibrazioni. Vedono. Le natiche di Beppe si stringono, come quando sotto la doccia Toninho gli pizzica i fianchi torniti. La donna è la moglie di uno di loro. Che sia il cocco del presidente o il bomber non importa. Beppe, soprannominato “il Grande” dopo la vicenda, lascia Genova per sempre.
Autostrada Torino-Piacenza, 1993. È arrivato il contratto che aspettava, quello grosso. Ha firmato il presidente in persona. Che tipo, un grande. Dicono abbia pagato dieci miliardi fuori bilancio, pur di averlo. Anche a lui piacciono le donne. Il ragazzo non è un puttaniere. Ma gli piace una ultimamente, ed è sposata. Sta andando da lei, quando la macchina va fuori strada. Pronuncia il suo nome all’ospedale, mentre lotta per sopravvivere. Anche il marito della donna è un calciatore. Quando il ragazzo si risveglia dal coma, la prima cosa che vede è il titolo della Gazzetta. L’altro ha firmato il contratto che aspettava, quello grosso. Con i Júbilo Iwata.
Torino, 1996 – 2001. Quando è arrivato tutti l’hanno preso per un bidone. Movenze scimmiesche, ruolo atipico. In pochi anni ha conquistato tutti, ha vinto tutto. Eppure, ogni giorno, quando lascia gli allenamenti sul suo macchinone il suo sguardo è mesto. La sua settimana non è scandita dal campionato e dalla coppa, ma dagli umori di un donnone tirannico. Il campione capace di sfuggire a qualunque marcatura è prigioniero, soggiogato dalla moglie. Siede in silenzio, a tavola, a volte guarda la televisione. Si gratta nervosamente la testa e gli rimangono ciocche di capelli fra le dita. Le guarda con rabbia, ma dentro sorride. Fra poche ore, quando il donnone si addormenterà, sgattaiolerà fuori per incontrare Lydia, nel suo bilocale rosa shocking in zona Continassa.
Piacenza, 1996. È appena arrivato da Avellino. Non è ancora soprannominato il Toro. Credeva di guadagnare di più alla prima stagione in A. Invece con la scusa della squadra operaia, tutta italiana, gli stipendi sono da fame. I bambini vogliono il Supenintendo. Qualche compagno polentone ha lasciato il Rolex e il portafogli nelle tasche dell’impermeabile durante l’allenamento. È questione di un attimo, come al momento di saltare all’indietro per una rovesciata.
Torino, 2000. Otto Rolex. Otto Rolex Daytona. A prezzo di listino, sessantacinque milioni di lire. Da rivendere agli amici degli amici, da regalare a Natale. Il nome del giocatore suona come un orologio svizzero, e non nel senso del ticchettìo. Si vanta di essere amico di un tizio soprannominato “Il Fornitore”. Porta sempre sul polso sinistro un bel Rolex d’oro bianco con quadrante in madre perla rosa e cinturino in pelle cocco rosa. Forse è solo uno specchietto per le allodole, un falso. I compagni lo guardano bramanti, la pizza promozione in una mano, il premio promozione nell’altra, pronto ad essere scambiato per un tempo diverso, un tempo senza minuti di recupero.
San Giovanni in Marignano, 2006. Una scala ripida, i muri con mattoni a vista. C’è una stanza al piano di sopra. Nella penombra sono riconoscibili solo i denti bianchissimi di Thomas N’Kono, portiere del Camerun, su un vecchio poster. La soubrette ha perso lo smalto di una volta, ma si dimena, mentre 3 uomini la toccano. Il portierone, non visto, si tocca a sua volta in un angolo, nudo, in ginocchio. Il freddo penetra attraverso i legamenti delle ginocchia, schiacciate sul pavimento, turgide.
Queste sono solo alcune delle Chiappe di Valderrama. Appuntamento al mese prossimo con il Capitolo II.