Nel mondo dei sogni irrealizzabili e in un contesto di calcio illuminato, il sogno di allenatori, calciatori, appassionati e tifosi dovrebbe essere quello di ignorare la classifica. La classifica è solo un elenco di nomi. A volte sono nomi affascinanti, che evocano luoghi riconoscibili ma storpiati, distorti in immagini anacronistiche ed esagerate: Vigor, Virtus, Real, Olympique, Atletico, Dinamo, Zenit, Hellas. Altre volte sono parole che non esistono sul vocabolario come Sampdoria o che non esistono più come Juventus, o ancora misteriose come S.P.A.L. Queste parole, però, testimoniano la varietà del mondo, alludono alla storia, alla geografia, alle vacanze, all’odio e all’amore, senza un criterio ben preciso, casuale come lo scorrimento dei carri allegorici al carnevale.
Il problema della classifica è che a ogni parola è associato un numero. I numeri hanno ordini crescenti e decrescenti, a seconda che si veda la classifica dal basso o dall’alto. L’altro problema è che i numeri rendono orrende le classifiche, svuotano il senso dei nomi e delle parole, giustificano ingiustizie, accumulano paradossi per cui una squadra vale 48 e un’altra 42. 48 e 42 cosa? Litri? Chilometri? Euro? Punti. Una convenzione per ora inattaccabile prevede che una vittoria valga 3 punti, un pareggio 1 e una sconfitta 0. Per vincere bisogna fare più gol dell’avversario durante la singola partita. Per pareggiare farne tanti quanti l’avversario. Per perdere almeno uno in meno. Ma questo non è un meccanismo giusto a priori. Molte volte capita che si vinca o si perda senza meritare. Un gol al novantesimo, immeritatissimo. Dopotutto questo è il calcio, si dice. No, non lo è.
Il calcio dovrebbe limitarsi a presentare un tabellone di squadre che si affrontano in linea di massima ogni domenica, giocano per segnare e per vincere. Ma in palio non dovrebbero esserci punti da accumulare a quelli precedenti. Si vince e basta. Si perde e basta. Si pareggia e basta. Anche la Classifica dovrebbe diventare qualcosa di nuovo, di più complesso, di più profondo. Al momento di redigere la Classifica, una commissione di arbitri imparziali ed esperti, scelti tra allenatori e calciatori in pensione o ancora in attività, dovrebbe dedicarsi a riguardare meglio le partite e a esprimere giudizi: “La squadra si è difesa male, puntando più sui falli sistematici che su buone marcature. La scelta di non creare gioco, togliendo un regista e inserendo tre stopper a tutto campo, ha reso questa squadra estremamente noiosa e prevedibile nella costruzione delle azioni, per nulla interessante nelle proposte, scolastica e incapace di gestire gli imprevisti di uno spazio che si apre all’improvviso, un movimento brillante di un compagno di squadra. La squadra ha esibito un gioco difensivo attento e puntuale, con interventi precisi e movimenti di reparto equilibrati e coordinati. La punta macedone ha interpretato il suo ruolo di attaccante con intelligenza, dosando con cura i momenti in cui bisognava tenere palla e quelli in cui bisognava velocizzare la manovra dettando il passaggio in profondità o liberandosi del pallone prima possibile. Le qualità dell’ala destra hanno reso più facile la vita alla sua squadra, ma hanno anche nascosto i molti difetti dell’ala sinistra.
Subire l’iniziativa dell’avversario per 89 minuti, ringraziando più la buona sorte che il proprio sistema difensivo e poi segnare un gol alla fine non è meritevole di alcun punto. Puoi vincere la partita lì per lì, ma la classifica sarà redatta in modo severo, con giudizi veri e sferzanti. I nomi scorreranno sulla classifica secondo i lunghi e complessi articoli a loro dedicati, col risultato che, a parità di risultati, per ognuno, dall’appassionato che legge il giornale al bar ai giocatori stessi, ci sarà la percezione di una classifica diversa, innovativa, creativa, frantumata e decine di migliaia di visioni differenti della stessa partita. Una classifica senza punti, un premio per chi semplicemente gioca a calcio, l’incubo per chi va in campo per non prenderle o si limita a un compitino.
Ma la verità è che siamo tutti soli ed esposti al freddo di una coperta troppo corta. La verità è che la classifica esiste e si muove con pareggi e vittorie e ristagna con le sconfitte. A volte la classifica piange. Se piange per tutta la stagione, si finisce ultimi e basta. Pochi, pochissimi punti, nessun alibi dietro cui nascondersi, pronti a retrocedere, girando per tutti gli stadi delle più fortunate avversarie con le orbite oculari vuote, le ossa sporgenti, un sorriso sdentato che implora pietà e contemporaneamente accetta la sorte. Gli sfortunati, i penalizzati dal risultato bugiardo, dai problemi societari e da un allenatore non all’altezza stanno finalmente per terminare il loro viaggio.
Valderrama accarezza con la suola un mondo diverso, un calcio senza punti, una scuola senza voti, una vita senza premi. Ma con l’altro piede sa palleggiare perfettamente col mondo reale e non abbandona i poveri, i fanalini di coda, gli spacciati, gli ultimi.
Albania
Muharrem Dosti è nato ad Elbasan e allena il KF Elbasani, e questa è già una circostanza notevole. È ultimo in Kategoria Superiore (la serie A albanese) con 14 punti in 34 partite, il che vuol dire che, arrotondando in eccesso per sadismo, ogni tre partite ne pareggiava una, se andava bene. L’ultimo posto dell’Elbasani è di quelli disperati, senza più contatti con il resto della classifica. Nemmeno se avesse vinto contro l’Apolonia, penultima zoppa e bruciacchiata ma ancora pimpante e piena di smania di salvarsi. I punti di differenza sono sempre stati troppi. E insieme ai punti, tutto il resto. Sin dall’inizio.
Per una squadra ultima per definizione, sia dal punto di vista economico che sotto l’aspetto dei giocatori che ne compongono l’organico, tutti sapevano che ci sarebbe voluto un miracolo. E l’uomo dei miracoli non poteva che essere Muharrem Dosti di Elbasan. Lui, dopotutto, è uno dei cavalieri che fecero l’impresa. Un’impresa dimenticata da tutto il mondo conosciuto, tranne che dagli abitanti di Elbasani, probabilmente nemmeno tutti. Una volta, molti anni fa, esattamente trenta.
Era la stagione 1984/85. Dosti, da poco passati i vent’anni, occhio da faina furba, espressione infastidita alla Platini, nemmeno un pelo in faccia, smilzo e taciturno, era il portiere di riserva di una leggendaria KF Elbasani che per la prima e unica volta nella sua storia giocò un primo turno di Coppa dei Campioni. Dosti vide dalla panchina i suoi compagni perdere contro una cosa che mai aveva sentito pronunciare in vita sua e mai più avrebbe fatto in modo di imbattervicisi dopo: il Lynbgy. I ben informati garantirono che era una squadra danese, ma Dosti, per il quale i divertimenti della pur non vicinissima Tirana erano la più grande svolta del sabato sera, considerò un regalo quella lezione di geografia. E di calcio: 0-3 all’andata, 3-0 al ritorno. Poco importa: Dosti visse un sogno e il ventenne onesto, di nessuna particolare ambizione, sentì di voler ringraziare la sua città che gli diede questa possibilità donandole in cambio l’intera sua vita, prima e dopo il calcio, anche quando la vita attiva diventò vita contemplativa.
Due partite ancora prima di chiudere tutto, retrocedere e andare in vacanza. Fuori casa contro il Laçi il 16 maggio, poi il 23 maggio in casa davanti a un centinaio di tifosi contro il Partizani. Entrambe avversarie nobili, ai piani alti di un campionato a 10 squadre, entrambe che tentano la scalata verso gli abissi dei preliminari dei preliminari dei preliminari di un’ombra che, in controluce, da lontano, può sembrare qualcosa che ricordi un po’ la Champions League. Dosti osserva i suoi portierini ventenni, Laçi e Razo, e prova un profondo dispiacere per loro. Se solo qualcuno venisse all’improvviso e dicesse: “Signori, se nelle ultime due partite che vi restano giocate il più bel calcio di tutti i tempi, vi prometto che vi facciamo salvare”, se solo questo qualcuno arrivasse ora, durante l’allenamento, pensa Dosti, sono sicuro che riuscirei a convincere i ragazzi a farcela. Sono scarsi, non c’è dubbio, dal punto di vista tecnico, tattico, fisico, scolastico. Ma ce la farebbero lo stesso. Perché l’Elbasani fece l’impresa con molto meno. Ma quei punti maledetti, freddi come l’inverno danese, tristi come i tasti di un ascensore di un albergo danese, odiosi come la parola Lyngby, sono troppo pochi. Non verrà nessuno a regalarcelo il miracolo.
Laçi offre un fiore a Razo, è cresciuto a lato del palo. I due ridono. Il resto della squadra li osserva impassibile, ma con un’espressione serena, gaudente. Dosti decide di parlare a tutti. Voi sapete chi sono, cosa ho fatto, sapete che conosco questo e quest’altro, ho parlato con alcuni, ascoltato altri, fatto un po’ questo un po’ quello, con un giro di parole sono arrivato a ottenere qualche garanzia, insomma, se mi state ancora seguendo, in qualche modo ce la possiamo fare. A fare cosa, mister Dosti? A salvarci. E come facciamo, mister Dosti? Basta giocare il calcio più bello di tutti i tempi. Nessuna reazione. Laçi e Razo, in lontananza, ruzzolano nel campo, abbracciandosi e ridendo, come volpi nella polvere.
Lo spogliatoio invece osserva Dosti con la stessa serenità di prima, un sorriso abbozzato al centro di teste quadrate e ben pettinate, nessuna idea, nessuna luce, nessun dubbio. Nessuna domanda? Silenzio. Dosti è quindi visibilmente soddisfatto e va via, mentre loro finiscono l’allenamento con una corsetta e due chiacchiere al tramonto. Jean-Paul Yontcha, trentunenne punta del Camerun, di passaggio nell’Elbasani in questa bell’impresa dell’ultimo posto, ha ascoltato a fondo il discorso del suo allenatore. In qualche parte del suo cuore comincia a chiedersi come si gioca il calcio più bello di tutti i tempi. In un altro anfratto del suo cuore di punta, mentre torna nella sua casetta nel centro di Elbasan, si chiede se sia tutto un sogno. Non solo quello che ha detto mister Dosti, ma tutto, dall’inizio. Se questa cosa che lui si chiama Yontcha e gioca in Albania è successa davvero o se è il solito incubo ricorrente di qualcun altro. E se è successa davvero, perché è successa? Dosti, l’uomo che fece l’impresa, è a casa che cucina un piatto di pasta ed è pieno di strane idee epiche.
Grecia
In Grecia l’idea della morte lenta non piace a nessuno, come non piacciono i lamenti e la rassegnazione fatalista. Meglio, molto meglio e sempre meglio andarsene con uno schianto, sciabola in mano e peana in gola. Il calcio, naturalmente, non fa eccezione. Quest’anno la prima giornata del massimo campionato ellenico, la Souper Ligka Ellada, si è aperta alle 18:15 del 23 agosto, sull’isola di Creta. Allo stadio Thódoros Vardinoyánnis di Heraklion, l’OFI Creta allenato da Gennaro Gattuso ha battuto il Panaitolikos per 1-0, grazie a un gol di Antōnīs Petropoulos in pieno recupero. A fine partita Gattuso festeggiava in campo mentre 4mila persone cantavano sugli spalti, e tutti pensavano che fosse solo l’inizio di un’annata ricca di sofferenze ma anche di soddisfazioni. Circa due ore dopo, ad Atene, i 17mila presenti allo stadio Georgios Karaiskákis osservavano l’Olympiakos sbarazzarsi della pratica Niki Volos nella prima mezzora di gioco, grazie ai gol di Kasami, Diamantakos e Afellay e prima della rete della bandiera segnata da Vasil Shkurtaj al 55’. Per l’allenatore degli ospiti, Wilhelmus Johannes Martinus Maria Vloet detto “Wiljan”, era già tempo di preoccuparsi per la sua panchina, traballante né più né meno delle finanze societarie. Due giorni dopo, lunedì 25 agosto alle ore 22:30, la prima giornata si chiudeva a Nea Smyrnī, alla periferia di Atene, dove 638 tifosi del Paniōnios festeggiavano la vittoria sofferta sull’Ergotelis, ottenuta all’85’ grazie al secondo gol di Giannou (in mezzo c’era stato il pareggio di Melli). L’Ergotelis, allenato dallo spagnolo Juan Ferrando, tornava a Creta preparandosi agli sfottò dei tifosi rivali dell’OFI di Gattuso, ma con la convinzione di aver giocato un’incoraggiante prima partita.
Da allora sono passati quasi nove mesi e 32 giornate di campionato, e la massima serie greca somiglia ai Campi di Croco dopo la battaglia: l’Olympiakos ha vinto il campionato con 3 partite d’anticipo; il Niki Volos ha disputato la sua ultima partita il 17 dicembre perdendo per 2-0 contro il Veria, prima di essere estromesso dal campionato per debiti e dopo cinque partite di fila perse a tavolino; l’OFI si è ritirato dal torneo a fine marzo dopo aver perso a tavolino contro il Pas Giannina perché in rosa erano rimasti appena 12 giocatori; l’Ergotelis, ultimo in classifica tra i sopravvissuti, è aritmeticamente retrocesso da due giornate, a 45 punti dalla vetta. Gattuso si è dimesso dall’OFI a dicembre, mentre Petropoulos, l’eroe della vittoria alla prima giornata, è passato al Kalloni durante il mercato invernale. “Wiljan” Vloet, allenatore del Niki Volos, è stato esonerato dopo la terza partita di campionato, mentre il marcatore dell’inutile gol contro l’Olympiacos, l’albanese-greco Shkurtaj, ora gioca nell’Asteras Tripolis e lotta per un posto ai play-off che garantiscono l’accesso ai preliminari di Champions League. L’allenatore dell’Ergotelis Juan Ferrando è stato esonerato prima ancora della terza giornata di campionato, mentre il suo connazionale Juan Alberto Andreu Alvarado detto “Melli” è volato in Azerbaigian a gennaio per rendere i suoi servigi al Simurq Peşəkar. In totale, dall’inizio dell’anno, nella massima serie greca ci sono stati 24 avvicendamenti sulle panchine, più del numero delle squadre partecipanti (inizialmente 18, ora 16). L’Ergotelis prende il nome da Ergotele di Imera, famoso corridore nato a Cnosso che vinse il dolichos (corsa di resistenza di 4,5 chilometri) alle Olimpiadi del 472 a.C, ripetendosi nel 464. Il presidente dell’Ergotelis, Giannis Daskalakis, è invece in testa nella classifica degli allenatori stipendiati dallo scorso agosto, con quattro tecnici: Juan Ferrando, Pavlos Dermitzakis, Giannis Taousianis (due volte) e Ioannis Matzourakis.
Domenica pomeriggio alle sei è andato in scena l’ultimo atto della stagione. Per uno scherzo del destino e del calendario, allo stadio Panthessaliko di Volo, in Tessaglia, avrebbero dovuto scendere in campo il Niki Volos e l’OFI. Essendo entrambe le squadre estromesse dal torneo, la partita non si è giocata, nemmeno a tavolino. A Creta, intanto, la squadra di Ergotele e Daskalakis ha perso per 2-0 contro il Levadiakos, che con questo risultato è riuscito a evitare il quartultimo posto e la retrocessione. Lo stadio Pankritio di Heraklion, inaugurato il 31 agosto del 2004 appena in tempo per le Olimpiadi e la sfida calcistica tra Grecia e Svizzera, ha una capienza massima di 27 mila persone e dista poche decine di metri dal mare. Domenica pomeriggio gli spalti erano completamente deserti. In campo, nei numerosi momenti di silenzio spettrale che hanno scandito la partita, si sentiva quasi il rumore delle onde.
Turchia
La stagione 2014-2015, la cinquasettesima della storia della Süper Lig, il massimo campionato turco, si era aperta in un clima di ottimismo. Investimenti in crescita, ben cinque squadre di Istanbul a spingere il pubblico allo stadio e soprattutto il sorpasso nel ranking UEFA nei confronti della più blasonata Eredivisie olandese. Lo stesso ottimismo aveva contagiato anche i cuori dei tifosi di Balikesir, popolare destinazione del turismo interno turco. La loro squadra, il Balıkesirspor, tornava infatti nella massima divisione dopo 38 anni dall’unica partecipazione. Ulteriore indizio della clemenza del destino, le urne avevano stabilito che il campionato iniziasse, venerdì 29 agosto 2014, con un anticipo unico proprio a Balikesir contro l’Akhisar Belediyespor. Le due città distano meno di cento chilometri e entrambe le squadre hanno trascorso buona parte della loro storia nelle serie inferiori. La partita, però, è finita 2-1 per la squadra in trasferta, decisa da una rete di Mehmet Akyüz dopo che l’ex Flamengo Alanzinho aveva ottenuto il pareggio per i padroni di casa. Dopo l’inizio difficile, la svolta per il Balıkesirspor è arrivata il 20 settembre quando, alla terza giornata, un miracolo si è manifestato a Balikesir, un miracolo il cui nome e cognome passeranno come una meteora nella Süper Lig: Cesare Prandelli. L’uomo di Orzinuovi, allenatore dell’ultra favorito per la vittoria finale, il Galatasaray, è infatti riuscito a soccombere 2-0 contro i neopromossi del Balıkesirspor, illuminandone la stagione e decretando il loro primo momento di gioia. Ma l’incantesimo è durato solo una settimana. Alla quarta giornata la sconfitta col Gençlerbirliği ha esiliato il Balıkesirspor direttamente nella Sant’Elena della diciottesima e ultima posizione, da cui fino a oggi non si è più spostato. Ultimamente ci sono stati alcuni timidi segnali di risveglio, come i due pareggi consecutivi con Sivasspor e Eskisehirspor, ma a quattro giornate alla fine i punti in classifica sono soltanto 20. Il quartultimo posto che significherebbe la permanenza in Süper Lig dista 8 punti. Come recita uno dei più famosi proverbi turchi “Çıkmayan candan umit kesilmez”. O come direbbe, semplificando, il traduttore di Prandelli al suo assistito: “La speranza è l’ultima a morire”.
Danimarca
L’anno scorso, negli ultimi giorni di maggio, a Silkeborg si sono svolti i mondiali di calcio a tre porte. La città , 49mila abitanti, è il luogo di nascita del pittore Asger Jorn, fondatore dell’Internazionale situazionista e studioso della trialettica, un concetto proposto in alternativa alla più borghese dialettica. La trialettica cerca di sostituire lo scontro tra due forze antagoniste che inevitabilmente si crea in un sistema dialettico con la cooperazione e la strategia. Così nel calcio a tre porte è importante che le tre squadre sviluppino alleanze temporanee tra loro per potere vincere la partita, il campo da gioco è esagonale e non contano i goal fatti ma solo quelli subiti. Il Silkeborg If, club calcistico della città che milita nella Superlega danese, gioca invece al più classico calcio a due porte, dove i goal fatti hanno la loro importanza. La squadra, a cinque giornate dalla fine, è ultima con una differenza reti di -23. I punti in classifica sono solo 13, a 12 lunghezze dalla penultima. In questa stagione il Silkeborg If non è ancora riuscito a vincere una partita in casa. L’ultima vittoria risale a metà marzo, in trasferta contro il Sonderjyske per 4-1. Il capocannoniere della squadra Nocolaj Agger ha segnato appena 6 goal. Nonostante le difficoltà del presente il Silkeborg If può consolarsi con un passato glorioso: è l’unica squadra danese ad aver vinto un titolo internazionale, la coppa Intertoto del 1996.
Spagna
L’assalto del male è di breve durata. Simile ad un temporale, di solito passa dopo un’ora. Chi mai potrebbe sopportare a lungo quest’agonia? La sopporta il Córdoba, schiacciato anche dal vicino Granada che potrebbe condividere lo stesso infausto destino ma che invece continua a lottare fino allo stremo delle forze con la speranza di soffiare la permanenza nella Liga a una nobile decaduta, il lontano Deportivo La Coruña. Il Córdoba invece no, anzi finisce in nove. Non vedi? Se lo spirito langue, si trascinano le membra e si cammina a fatica.
Più di un millennio dopo la partenza di Seneca per Roma, Averroé partì per Marrakech lasciando una Córdoba lacerata dalle guerre, preda di visigoti, arabi, castigliani e catalani. Oggi sono proprio gli eredi di quei catalani, colorati blaugrana, a colpire le stanche membra andaluse dei “califfi”, scaraventati per l’ennesima volta in seconda serie con l’onta di otto gol. La società attuale, fondata nel 1954, sostituisce la precedente Real Club Deportivo Córdoba, frutto di una fusione simile a quelle operate in Italia durante il fascismo. Il precedente Sporting Fùtbol Club de Córdoba subì infatti il divieto di usare parole straniere che colpì tutte le squadre spagnole quando i nazionalisti presero il potere alla fine della Guerra Civile. In seguito gli toccò anche l’appellativo di Real. In ogni caso, pur attraversando tutte queste esperienze, lo spirito della squadra “real” non fu mai, camminò sempre a fatica, riuscendo raramente a confermarsi nella prima divisione del calcio spagnolo. Non sono di buon auspicio per il futuro gli zero gol messi a segno da Fausto Rossi, in gita biennale in Spagna commissionata dalla Juventus, un altro millennio dopo il traduttore arabo di Aristotele. C’è da scommettere che anche lui, insieme al resto della squadra, l’anno prossimo giocherà in una serie inferiore. Tutti insieme, un giorno, attraverseranno il ponte romano sul Guadalquivir, ostentando un flamenco propiziatorio al seguito di Joaquìn Cortés. Quel giorno sarà il primo e l’ultimo in cui saranno loro ad uscire festanti, e non qualcun altro ad invadere l’antica capitale di al-Andalus.
Olanda
Per molti anni squadra con il minor numero di spettatori nei Paesi Bassi, l’FC Dordrecht vanta pochi onori nella sua storia ultracentenaria. Escluse due coppe di lega vinte nel secolo scorso (1914, 1931), gli unici acuti sono rappresentati dal periodo sotto la guida del “mago” ungherese Arpad Weisz nel biennio 1938-1940, durante il quale la squadra batte Ajax, Feyenoord e Psv Eindhoven. La notorietà dell’allenatore di origini ebraiche, trasferitosi nella cittadina olandese insieme alla famiglia dopo anni trascorsi sulle panchine italiane, è però legata soprattutto alla tragica fine tra i campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau nel 1944, e non è azzardato affermare che sia stata proprio la sua permanenza a Dordrecht a causarne la deportazione. Scorrendo gli annali della squadra l’occhio cade sul nome dell’unico campione a vestirne la maglia, per sole tre amichevoli, nel 1981: uno Johann Cruyff a fine carriera, indossò i colori verdi dell’FC Dordrecht per un breve e malinconico cameo prima di chiudere la carriera fra Levante, Washington Diplomats, Ajax e Feyenoord. Ottant’anni prima dell’arrivo di Cruyff, nel 1902, Marcel Proust dedicò un breve poema alla piccola cittadina descrivendone i cieli spesso blu e spesso coperti da nuvole cariche di pioggia. Nell’alternanza di luci ed ombre che caratterizza Dordrecht, è evidente la prevalenza dei toni cupi del tragico. È proprio un cataclisma, l’”inondazione di Sainte-Élisabeth” del 1421, a collegarla al mare e a trasformarla in un porto commerciale per vini di scarsa qualità, legname infradiciato dalla pioggia e cerali insapore. Quest’anno il motto delle teste di pecora ,“lottare insieme, vincere insieme”, suona come una penosa litania scandita dalle cronache di ventuno sconfitte e sole tre vittorie, a un anno dalla insperata promozione in Eredivisie dopo quasi vent’anni. La retrocessione è arrivata aritmeticamente il 4 Aprile, quando il Dordrecht, proveniente da tre sconfitte consecutive, ha avuto la sua ultima chance contro l’Heracles di Almelo, anch’esso in lotta per la salvezza. Dopo un paio di capovolgimenti di fronte, i verdi si sono arresi al 2 a 3 finale di Linssen, che ha proiettato l’Heracles verso una probabile permanenza nella massima serie. Il resto è una mesta coda di partite prive di significato, che come la dottrina del “sopralapsismo”, fondata a Dordrecht nel seicento, “esclude del tutto la partecipazione dell’uomo all’opera di salvezza”. Il sipario si chiuderà fra 90 minuti di gioco, il 17 maggio, contro un Ajax matematicamente secondo in classifica. La squadra del gemello de Boer non concederà alle teste di pecora l’ultimo barlume di cieli azzurri, schierando le riserve. “Dordrecht posto così bello, tomba delle mie care illusioni.”
Italia
È stato proprio il mese dei fiori ad essere fatale alla squadra di calcio della città dei giardini. La sconfitta interna contro il Latina di Mark Iuliano del 2 maggio ha condannato il Varese alla retrocessione, dopo cinque anni di permanenza in serie B e la serie A sfiorata e annusata più volte, come un frutto proibito e irraggiungibile. I prati che costeggiano la salita che porta al Sacro Monte a maggio si tingono di tonalità variopinte. L’allenatore Stefano Bettinelli e la squadra avrebbero potuto godere della vista di tale bellezza, correndo lungo tutta la Via Sacra fino al santuario di Santa Maria del Monte per ringraziare della salvezza conquistata, se solo si fossero avverati i fioretti di inizio stagione. Ma così non è stato, e la stagione del Varese si è trasformata in una vera e propria Via Crucis. Le premesse già non erano rosee dopo la fortunata salvezza ai play-out dell’anno precedente, ma mister Bettinelli era fiducioso: “il 4-4-2 è un totem da cui non si sfugge. Io vedo il calcio in modo semplice: le ali fanno le ali, i mediani i mediani. Vi ricordate il calcio inglese classico, quello divertente? Ecco, il mio Varese sarà così, ci divertiremo”.
In autunno i punti di penalizzazione per irregolarità nei pagamenti dei contributi Irpef dei calciatori non promettevano nulla di buono. Il ritardo nei pagamenti degli stipendi e le incertezze societarie non avevano però preoccupato Bettinelli e i suoi ragazzi, che alla fine del girone d’andata veleggiavano comodamente a metà classifica. Il mercato di riparazione ha però indebolito una rosa già avvizzita con la partenza dell’ex-promessa Lupoli, miglior marcatore fino a quel momento. E i soliti infortuni del chiacchierato Neto Pereira, detto Swarovski per la sua fragilità, hanno lasciato il Varese completamente senza attacco. La squadra ha cominciato ad affondare sempre più fino all’inevitabile esonero del totem Bettinelli. Il suo successore Dionigi è però durato una settimana: metodi troppo duri e ritiro pre-partita non gradito ai senatori, spalleggiati anche dalla contestazione dei tifosi. Inevitabile il ritorno di Bettinelli e del pranzo a casa prima della partita. A marzo sono stati scongiurati altri punti di penalizzazione grazie all’avvento alla presidenza di Pierpaolo Cassarà, che ha dichiarato “La situazione non è così grave. Ma questa forse è l’ultima chance. Il valore culturale del calcio è quello che porta avanti anche Papa Bergoglio: la Chiesa è caduta in un abisso e si sta rialzando perché il Papa trasmette il bene. Io allo stesso modo voglio fare il bene del Varese”. Ex avvocato radiato dall’ordine, Cassarà è stato per cinque anni direttore della Fondazione Labus Pullè nonché gestore unico dei beni della contessa Maria Luisa Cotti vedova Pullè, prima di essere denunciato per raggiro e truffa. La contessa è stata trovata morta suicida la settimana successiva alla nomina alla presidenza di Cassarà, accanto al corpo decine di ritagli di articoli di giornale sul Varese e sul presidente.
Nonostante gli sforzi di tutti la situazione è precipitata, tra sospetti di partite vendute, improbabili cordate per salvare la società dal fallimento e dichiarazioni sempre più disperate. All’appello di Cassarà: “Vogliamo cori ultrasonori, vogliamo cori al genoma esplosivo, vogliamo curve con gli shot, con gli scoppi e con le bordate” i tifosi hanno risposto entrando di notte nello stadio, distruggendo il campo, le porte, le panchine e vandalizzando gli spogliatoi con scritte minacciose. La retrocessione matematica dopo la sconfitta col Latina è stata una liberazione per tutti. Ora che si è toccato il fondo è il momento di ricostruire. Ma con calma, c’è ancora tempo per un pranzo in famiglia prima delle due partite rimaste o per una passeggiata sul Monte Sacro, la primavera è appena cominciata. L’estate con la sua scadenza per l’iscrizione alla Lega Pro del prossimo anno è ancora lontana, i soldi si troveranno.