12 Giugno 2026, Aleppo, 17.00 (ora locale)
La palla rotola sul campo come la testa del Capeto in piazza della Rivoluzione. Eppure questo non è posto per giardini all’inglese. Questo campo di patate ricorda solo la sabbia dove cadde senza rotolare la meno nobile testa di James Foley, ugualmente tranciata dalla perversa idea di una giustizia superiore a quella farlocca, malfunzionante e figlia del potere di alcuni uomini su altri. In fondo entrambe si manifestano sempre allo stesso modo: la palla rotola, la testa rotola. Qualcuno ci rimette parti del corpo. Lasciarci una gamba in un contrasto sarà forse poco saggio ma qua tutti si sono fatti l’idea che “alla fine siamo tutti qui per giocare a calcio”. Veicolo d’unione e tolleranza, ripete da anni Saviano. Da poco prima dell’Europeo assegnato a Israele guarda caso. Quando eravamo bambini era solo un napoletano che voleva parlare di mafia. Lui però qua mica c’è venuto. A sudare a quaranta gradi e con l’ansia, l’ansia costante di dire sempre la cosa giusta. Di non pestare mai i piedi alla persona sbagliata. Per carità, i banchetti con i vol au vent ai gamberetti ci sono anche qua, come c’erano in Israele. Le donne pure, e che donne. Le siriane! More, carnagione dorata, occhi verdi. Un ben di dio raramente visto dalle nostre parti. Quando ero bambino Don Felice raccontava che Eva era stata creata dal Signore da una costola di Adamo. Ogni tanto sui giornali divampano polemiche sull’immagine, che secondo le femministe non ha fatto altro che reiterare il potere di noi maschi. Ecco, qua bisogna stare attenti per altri motivi, ma queste donne sembrano proprio fatte per piacere all’uomo e poco altro. E dici poco! Basta uno sguardo di troppo e questi ti tagliano le mani. L’altro giorno all’allenamento parlavamo di questa regina famosa, Ranya di Giordania. Dopo un po’ abbiamo concluso che quella mica è daesh, lo dice anche il nome che è giordana. Simone, che qui è il più vecchio, queste cose le capisce subito: “stati confinanti”, ci ha detto.
Dicembre 2023
Ragnatela tatuata sulla testa, camicia nera, barba da hipster, sguardo fiero. Come sempre stile impeccabile. Il suo reportage su l’Espresso va a gonfie vele. Come tutti gli altri, dopo quella volta che ha perso la causa legale con quello stronzo di Persichetti. Quella gli rode ancora, ogni volta che ci pensa. Non oggi: perché rovinare questa bella grigliata in giardino con la scorta? Il nuovo tatuaggio sta molto bene, dicono tutti. È per via del punk. Un secondo revival, dopo quello degli anni ’90, ha nuovamente invaso il mercato musicale. La storia si ripete la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Dalla terza in poi, si ripete ciclicamente ogni vent’anni. È per questo che Roberto è diventato un esperto, ha studiato, si è trasferito a San Francisco nella bella villa con la R gigante in giardino. Come sempre, ha scritto. Lettura della mattina. Nel reportage sul calcio in Israele, siccome bisogna dar voce anche ai critici, si dice che già i Propagandhi in una canzone del 1995, “Haillie does Hebron”, cantavano: “la Striscia di Gaza diventerà presto un parcheggio per turisti americani e poliziotti fascisti”. Roberto dice che questi punk non hanno mai smesso di usare toni troppo duri e violenti, che Israele non ha nulla di fascista e che il turismo non ha avuto poi tutta questa fortuna nella zona. Ma che effettivamente quello stadio e quel grande parcheggio voluto dal governo di centrosinistra per gli Europei del 2024, proprio nella Striscia, non si discostava troppo da quell’immagine proveniente dagli anni ’90. In ogni caso, quella era un’occasione da cogliere per riappacificare i popoli. Il calcio può essere veicolo di unione e tolleranza. Può rompere le barriere, può imporre la pace. Roberto ricorda le brucianti polemiche di un periodo lontano, quelle dell’Expo 2015 a Milano, un evento ormai dimenticato. Anche lì bisognava cogliere l’occasione, nonostante gli affari di corruzione di cui l’evento era circondato. Ogni momento della storia, dice, è per lui un’occasione. Ogni singola scelta può far andare il mondo in un modo o nell’altro, ma la scelta è sempre situata. Roberto vuole citare Jean-Paul Sartre, un “noto intellettuale della sinistra rivoluzionaria”. Uno che lui ammira molto, per l’impegno e l’immagine pubblica che aveva, nonostante appartenesse a un’epoca in cui si era “troppo indulgenti con la violenza”.
Pilato aveva avuto notizia del mio arrivo da Sulpicio Quirino, legato in Siria. […] Era chiaro, tuttavia, che stasera era preoccupato. Gli ebrei lo irritavano, erano vulcanici, frenetici, eruttivi. E poi era gente cavillosa. I romani andavano dritti al nocciolo delle questioni, mentre gli ebrei non procedevano mai in linea retta, se non per ritirarsi quando vi erano costretti. Se li lasciava fare a quel modo, agivano sempre in maniera obliqua. La sua irritazione, ci spiegò Pilato, era dovuta al fatto che gli ebrei tessevano intrighi per trasformare lui, e attraverso di lui Roma, in uno strumento delle loro lotte religiose. Roma, io lo sapevo bene, non interferiva nelle faccende religiose dei popoli conquistati, ma gli ebrei continuavano a confondere i piani, dando un’impronta politica ad eventi che politici non erano. […] “Lodbrog,” disse “nessuno può prevedere se una di queste loro nuvolette estive si trasformerà o meno in un temporale tanto fragoroso da assordarci. Io mi trovo qui per mantenere l’ordine ma costoro, contro la mia volontà, fanno di questo posto un vespaio. Preferirei di gran lunga governare gli sciti o i selvaggi britanni, e non questa gente che non sa fare altro che accapigliarsi su Dio. Proprio ora, nel nord della regione, è venuto fuori un pescatore che si è trasformato in predicatore e operatore di miracoli: chi mi assicura che non riesca in breve tempo a tirarsi dietro l’intero paese e farmi convocare a Roma?”.
10 Marzo 2021, presentazione della Confederations Cup
Polvere gialla. E basta. Qualche arbusto qua e là forse. Non dei più rigogliosi comunque. Certo, non si può dire che ci sia sporco qui, cartacce per terra non ce ne sono. Questa passeggiata estemporanea dallo stadio al mausoleo potrebbe costagli un infarto. Il piccolo indiano senza denti ma con un bel completo, che regge l’ombrellino nero, caracolla qua e là in cerca di sollievo con un sorriso stampato in faccia che sembra una paresi. I vestiti gli sono dati in dotazione dalla federazione nazionale qatariota. Passo pesante, pressione bassa, vista inceppata, difettosa. Ecco quanto costa una passeggiata di neanche un chilometro per arrivare dallo stadio a questo inutile monumento. “Qua ci lascio le penne”. Ma le relazioni vanno coltivate, così ha sempre insegnato la Democrazia Cristiana. E allora pensa, pensa al breve discorso che deve tenere. Una cosa semplice, dopo tutte queste conferenze stampa e la carriera da sindaco questo è il problema minore. Ovviamente è meglio non usare la parola “negro”. Certo che è ovvio, eppure dopo quella volta è più sicuro ripeterselo ossessivamente a ogni occasione.
Carlo Tavecchio avanza a passo sicuro. L’uomo al suo fianco per l’occasione indossa il copricapo e la tunica nera, che mette in risalto la sua folta (ma a dire il vero non curatissima) barba. Anche lui ha il suo indiano zoppo con l’ombrellino. Da uno così ci si aspettava anche una scorta armata, invece no: vuole dare la sensazione di essere a suo agio, e al contempo sa che probabilmente, per come si sono messi i rapporti internazionali, lì lui non ha nulla da temere. Finalmente si scorge la statua. Un piedistallo gigantesco in pietra e avorio, attorno al quale una sorta di abbeveratoio per cavalli separa gli infinitesimali ammiratori dal corpo dell’opera. Sui giornali italiani circolava la voce che il monumento fosse tutto in oro massiccio ma per la verità, come da usanza, nessun cronista si è mai recato sul posto. Nemmeno al momento dell’inaugurazione, quasi un anno fa. Bastava comunque aprire il Sun per verificare che si trattava di bronzo, con un unico ricamo in oro che rappresentava il logo della FIFA sul busto della statua. Un’opera mediocre, di circa due metri e mezzo di altezza, che sui media occidentali aveva comunque già fatto la sua porca figura, nonostante fosse piazzata a due chilometri dal nuovo stadio di Ash Shamal, una provincia che tutta intera ha gli stessi abitanti di Ponte Lambro, solo senza asfalto e cemento. Certo, con la differenza che a Ash Shamal ci si arriva direttamente con il prolungamento di 82 kilometri della metro Red Line North di Doha. Strano posto per piazzarci una statua di Joseph Blatter, ma cosa non farebbero questi per veder giocare Gerson da vicino.
18 Giugno 2026
Nella seconda partita del girone l’ISIS affronta il Venezuela. Che si dice del Venezuela? Boh. C’è ancora Martinez, che ha un passato nel Torino. Si esalta nelle competizioni per nazionali, ha fatto bene anche alla Copa America. Ricorda un po’ quell’Oribe Peralta che esaltava i messicani a metà del decennio scorso, eroe in patria, quasi sconosciuto nel resto del mondo. Dell’ISIS come sempre è meglio non parlare, né bene né male. Non parlarne proprio, queste le direttive da viale Mazzini.
Alena glielo diceva sempre che blaterava troppo in giro e che quello non era il suo ruolo. Oltre alla porta avrebbe dovuto tener chiusa anche la bocca. “Adesso che succede?” si domanda con la sudorazione straripante e il battito accelerato. Alberto Rimedio al suo fianco non proferisce parola per almeno dieci secondi, il suo primo pensiero è “speriamo che non tocchi anche a me… Io non c’entro niente”. Sapeva fin dall’inizio che avrebbe potuto capitare. Ma perché hanno voluto inserirlo proprio adesso? Perché proprio in questo stramaledettissimo posto? Soprattutto, per quale assurdo motivo lui stesso pensa di capire qualcosa di tattica? E perché si ostina a pensare di essere un bravo commentatore tecnico? Ecco, ora il danno è fatto: Gigi ha bestemmiato in diretta.
È verosimile che io sia stato condizionato dall’ambiente in cui mi trovavo, perché dopo pochissimo tempo cominciammo a parlare di religione. Proprio così: a quel tempo gli ebrei mettevano nelle dispute religiose la stessa passione che noi mettevamo nei combattimenti e nei banchetti, e non c’è stato momento – nell’intero lasso di tempo che trascorsi in questa regione – che non mi siano ronzate nelle orecchie le loro interminabili disquisizioni sulla vita e la morte, sulla legge, su Dio. Pilato, per parte sua, non credeva in nulla, né negli dèi, né nei demoni. Per lui la morte altro non era che l’oscurità di un sonno perenne. Paradossalmente, però, negli anni trascorsi a Gerusalemme si trovò immerso fino al collo nelle furiose dispute religiose che imperversavano in città. Del resto, nel corso dei miei spostamenti in Idumea si occupava del mio cavallo uno stalliere, un poveraccio che non sapeva neanche stare in sella ma era capace, dal tramonto all’alba, di discettare ininterrottamente, con la pignoleria di un erudito, sui diversi ammaestramenti di tutti i rabbini, da Sameas a Gamaliele.
19 Giugno 2026
“Alla direzione amministrativa di Sky Sport, chiedo di potermi immediatamente congedare dalla conduzione della trasmissione Via della Seta per poter raggiungere il più presto possibile lo Stato Islamico dove mio marito è condannato a morte”. Questa la lettera scritta in fretta e furia per recarsi ad al-Raqqa. Non è nelle sue intenzioni affrontare gli Harun-al-Rashid postmoderni. Vuole solo chiedere un po’ di umanità. Ma non è così semplice. Immischiarsi negli affari interni di uno stato riconosciuto, dice Murdoch, rischia di compromettere la prosecuzione del Mondiale. Permesso negato. E senza permesso là non si entra, se non appoggiandosi alla guerriglia (nuovamente) clandestina curda per oltrepassare il confine nei pressi di Suruç. La pena in caso di bestemmia è la decapitazione.
26 Febbraio 2016
Pelle squamata, occhi gialli con palpebra a chiusura verticale, branchie laterali al viso, lingua biforcuta. Un rettile. E alla fine il vecchio metodo tutto umano delle mazzette. Il soggetto ideale per governare la caducità umana. Un animale sempre propenso a mentire e a dimenticare. Cibo per vermi. Viene dalla Svizzera, per cui è lecito pensare che sia discendente dei babilonesi e imparentato, perché no, con la Regina Elisabetta, perché in fondo gli inglesi il calcio l’hanno inventato. Complotto. Oppure il sacro vecchio gioco del potere. Mani sudate, bigliettini che passano da un banco all’altro, troppo in basso per essere notati dalle telecamere. Certo, anche alle cerimonie, senza tanti fronzoli. Non c’è bisogno di trovarsi nella piazzola di un autogrill sulla Como-Chiasso per fare certi affari, quella è roba da faccendieri di quint’ordine. Poche ore prima la notizia: tra i candidati che si possono votare, c’è anche Joseph Blatter! Molti delegati delle federazioni, cui spetta il voto in assemblea, non ne sapevano nulla. Lo apprendono, come il grande pubblico, dallo scoop di Sky Sport. Si era fatto da parte, ma solo per finta. Brusio nella hall della sala delle celebrazioni di Nyon, quasi tutti sono presi alla sprovvista, oppure fanno finta di esserlo. Blatter non doveva esserci. Consultazioni, sorrisi tirati, strette di mano tra mani sudate, sudatissime. Ascelle pezzate, giacche già da buttare.
La modellina diciannovenne è appena uscita dal retro. Capelli impomatati e un gesto di stizza per il servizio in onda alla tv appena accesa. Non dovevano saperlo. Poco male, non cambia niente, qualcuno darà aria alla bocca protestando che non è cambiato niente e che il calcio è corrotto. Piccoli soldatini nazionali che vorrebbero un giro di scommesse tutto loro, al massimo. Ci sono bustarelle molto più importanti pronte ad arrivare, chi mai può gestirle con un cambio così radicale di dirigenza? L’uomo adatto non è forse ancora lui? La laurea in Business all’Università di Losanna, le tante Olimpiadi, la lunga carriera da successore di Havelange. Devono rivotarlo per forza. Al netto di quelli che devono rivotarlo per soldi ovviamente. Bustarelle molto più interessanti. Israele, caso spinoso, se ne occupi Platini invece di venire a pisciare nell’orto mondiale. Deve accettare, quelli sono soldi, oppure rischia la bancarotta con tutti quei club europei in mano agli sceicchi che stanno per farsi un campionato proprio.
2026 primavera
“Non è sempre Domenico” titola la Gazzetta.
La palla arriva da lontano, il libero ha voluto dare aria all’azione con una sventagliata di destro tagliato. Una palla marcia, imprendibile, di quelle che ti fanno passare la voglia di stare lì a fare finti scatti giusto per mettere un po’ di pressione al terzino inesperto. In dieci anni qui mai la soddisfazione di poter rifiatare dieci secondi e fare un numero l’azione successiva. Lo sguardo a terra, in attesa dell’ennesimo “merda” al portiere. C’è qualcosa di strano nell’erba. La forma dei fili sembra affusolata, come se si sciogliesse al caldo. Ogni zolla sta producendo delle minuscole squame, come per difendersi da quei pezzi di ferro che ad ogni movimento affondano nel tessuto vivo della natura. L’intimità delle radici che rinforzano la vita canalizzando sali minerali e liquidi. Mille soli artificiali inondano di luce e calore queste fibre, ogni giorno della settimana, e chissà per quanto tempo ancora. Quelle fibre si stanno lentamente tingendo di nero, come una macchia oleosa che si diffonde per il campo, un cancro che si espande lentamente, ma imperiosamente detta la sua legge di morte senza che la natura possa fare nulla per fermare il processo. Ad un certo punto l’espansione si placa. Qualcosa ha fatto resistenza. Forse la sintesi di un nuovo minerale presente nel terreno ha impedito l’avanzare della macchia nera. No, non sembra così. Un’ombra spaventosa copre la luce dei riflettori, ma il maxi-schermo continua a mostrare le immagini. Sogno o son desto? Che succede? Non è così, nessun minerale ha modificato il processo. Qualcuno o qualcosa hanno detto che va bene così, che le squame e il nero possono restare. Tranquillità. O follia, l’occhio del ciclone. Mi mandano là. I pensieri si tingono di sfumature accese, un momento di lucidità: “morirò”. Una scarica di adrenalina accende il battito e la forza di una sedia elettrica scatena tutta la forza dei quadricipiti. Una corsa folle, nessuno capisce, il portiere è fermo. Berardi si schianta con la testa contro il palo. Lo stadio è di sasso, ma il giocatore non è svenuto, perde sangue ma comincia a prendere violentemente a calci il palo. Il parastinchi si rompe, la forza è inaudita. Una pozza rossa si ammassa prima che qualcuno possa intervenire.
Fui in missione in Idumea e in Siria su incarico di Sulpicio Quirino che, in quanto legato imperiale, era molto interessato alle informazioni di prima mano che potevo fornirgli su Gerusalemme. Attraversando il paese in lungo e in largo, potei verificare di persona che gente strana fossero gli ebrei nel pensare a Dio sempre e comunque. Era il loro tratto distintivo. Invece di lasciare queste faccende ai sacerdoti, ognuno di loro diventava sacerdote e quando trovava qualcuno disposto ad ascoltarlo – il che era facilissimo – si metteva a predicare seduta stante.
Lasciavano le proprie occupazioni e si mettevano a vagabondare per il paese come tanti mendicanti, litigando e accapigliandosi coi rabbini e i talmudisti nelle sinagoghe o sotto i portici dei templi. E fu in Galilea, una regione quasi insignificante i cui abitanti avevano fama di sciocchi, che per la prima volta incrociai la strada dell’uomo dal nome Gesù. Si diceva che prima avesse fatto il falegname, poi il pescatore e che i suoi compagni avessero smesso di tirare le reti per seguirlo nella sua vita vagabonda. C’era chi vedeva in lui un profeta, ma i più lo consideravano un pazzo. Quello straccione del mio stalliere, che non si riteneva secondo a nessuno in quanto esperto del Talmud, se ne faceva beffe, chiamandolo re dei mendicanti e dicendo che la sua dottrina non era altro che una forma di ebionismo. Secondo questa dottrina, mi spiegò, solo i poveri sarebbero andati in paradiso. I ricchi e i potenti, invece, sarebbero stati bruciati per sempre in un lago di fuoco.
Le teste rotolano con la leggerezza di uno Jabulani. La nazionale dell’Iran sciita esclusa dagli ottavi nonostante il secondo posto nel girone per via del rifiuto dell’allenatore ottantaseienne Bora Milutinovic di stringere la mano all’uomo con la tunica nera. La terra aspra di un colore indefinito, accecante per gli occhi non ancora abituati a tanta luminosità, circonda i nuovissimi stadi pagati coi soldi del petrolio venduto ai turchi prima degli accordi di Limassol. A Casa Italia, nel resort Portobello di Aleppo, si segue con apprensione la sentenza del Califfo su quello che fu il miglior portiere del mondo. Sul canale satellitare intanto va in onda la diretta di Ghana-Repubblica di Crimea.
Il trasferimento da Al-Hasakah ad Aleppo dopo la partita è stato massacrante. In pullman, perché il nuovo aeroporto non è stato completato in tempo. Una colonna di autoblindo neri a rinforzare la scorta, per paura di attentati dei ribelli curdi ancora presenti nella regione. L’uomo in nero, il Califfo, vuole dare l’immagine dell’impegno dell’ISIS nella difesa delle nazionali ospiti. In realtà il pericolo per gli occidentali è nullo, perché la zona era controllata in precedenza dai peshmerga alleati degli Stati Uniti. Al mondiale gli americani però non ci sono arrivati.
I cocktail analcolici di Aleppo sono disgustosi. A Casa Italia Tavecchio ha voluto che arrivassero alcuni prodotti importati, per far sentire gli atleti a loro agio. A parte il veterano Zaza, dopo l’increscioso episodio di Berardi (espulso per sempre dalla nazionale dopo aver confessato di essersi infortunato volontariamente pur di non viaggiare nello Stato Islamico), è una nazionale giovanissima. Le facce tirate dopo il lungo viaggio, tra la paura che potesse accadere qualcosa, il pessimo risultato – sconfitta 2 a 1 con la Svizzera – e la preoccupazione per la sentenza.
Blatter se n’è andato nel 2018. A chi va data la responsabilità di questo viaggio? Al sistema che lui ha messo in piedi, o al suo successore? Le labbra sanno di sale e le gambe tremano. Lo sguardo spento dei giovani atleti non è ormai più in grado di comunicare la vecchia cattiveria della nazionale italiana. Nella testa di Simone, sulla cui nuca giace ora una ragnatela, regna il silenzio. È il deserto che ci ha preso. Le mani impiastricciate del cioccolato della merendina Mulino Bianco prendono direzioni strane, una si posa sulla coscia dell’attaccante ventunenne. Un atteggiamento che l’inserviente guarda con sospetto. Ma è il preludio alla domanda: “Chi sei tu?”. Il giovane attaccante guarda Simone e si chiede se stia scherzando, ma nei suoi occhi vacui vede salire la febbre. La mente sprofonda in un sonno profondo, nonostante percepisca tutto ciò che accade. Simone vede crescere un’ombra alle spalle del televisore. Le parole del Califfo non sono tradotte, si tratta solamente di un processo come tanti altri. Di una decapitazione tra tante. Nessun uomo è superiore a un altro, al cospetto del Supremo. L’ombra nera si spande nella stanza e copre i volti irriconoscibili di questi giovani italiani. La presenza si fa costante e sempre più grande, sembra riempire lo spazio comprimendo i corpi che affollano la stanza. E infine comunica qualcosa, in una lingua sconosciuta accompagnata da una strana cantilena. Le acque dell’Eufrate spalancano una visione collettiva. Nell’unica lingua universale comprensibile si fa strada nitida una parola: “morte”.