Foto sgranate di qualche vittoria in una bacheca. Coppe e gagliardetti esotici in vetrina. Palloni d’oro, scarpe d’oro, piedi d’oro imballati, in soffitta. Messe da parte le reliquie, la storia del calcio è fondamentalmente la storia di uomini senza vestiti.
La storia di uomini le cui esistenze trascorrono in gran parte nude, coperte solo da una ridicola maglietta colorata, da pantaloncini e, non sempre, da capelli. Tutti noi veniamo al mondo senza peli, senza vestiti, a volte con un po’ di capelli in testa. Nel corso della vita, se tutto va bene, accumuliamo peli e capelli. Quanti e quali vestiti riusciamo ad ammassare sui nostri corpi dipende da provenienza geografica, status sociale, resistenza alle condizioni atmosferiche, credo religioso.
Il calciatore no. Il calciatore viene strappato in giovane età alla naturale evoluzione e violentemente depilato. Due gigantesche mani, quelle sì pelose e impazienti, lo vestono con una magliettina sgargiante, pantaloncini, calzettoni e scarpini. Non scarpe, “scarpini”. I nostri nonni ci dicevano che la maggiore età coincideva col portare i pantaloni lunghi. Con il primo lavoro acquistavano il primo paio di scarpe, che doveva durare tutta una vita.
Il calciatore no. Il calciatore oggi porta scarpini fucsia, verdi, turchesi. Nessuno storico può davvero prendere sul serio la figura di un uomo che nell’album fotografico della sua carriera è quasi sempre in mutande. Fino a qualche anno fa al calciatore veniva concessa la maglia in lanetta, o addirittura a maniche lunghe. I colori erano spenti, sobri, coprivano pance che si avvicinavano a un mondo reale, fatto più di persone che di modelli. Turgidi, lucidi, sbarazzini. Oggi il giovane sente tutta “la paura e la voglia di essere nudo” e al massimo tenta di coprire braccia, collo e gambe con tatuaggi. Quel corpo che ha fatto sognare i tifosi bramanti inizia ad appassire. Le vene varicose fanno la loro comparsa. A quel punto al calciatore non resta che togliersi gli scarpini, appenderli al chiodo. Ma il chiodo è spesso un vecchio chiodo arruginito e la maglia vi rimane impigliata. Si sfilaccia fino a scomparire, per lasciare il calciatore nudo, un’altra volta, anzi peggio che a inizio carriera.
Questo è il momento in cui la seconda metà dell’esistenza del ragazzo uomo viene decisa. Il portiere spesso parte avvantaggiato. Ha indossato più vestiti di tutti sul campo. Nel migliore dei casi, soprattutto se è nigeriano o Taibi, ha potuto persino indossare dei pantaloni. Nel peggiore, ha comunque avuto un indumento in più rispetto ai colleghi: il guanto, universale emblema di signorilità. Forse è per questo, e non per la visuale sul campo come dicono alcuni, che il portiere diventa più spesso allenatore. Più ci si avvicina alla trequarti avversaria, più il giocatore ha la tendenza a togliersi maglia o pantaloncini per lanciarli al pubblico. Forse è per questo, e non per la minore visuale sul campo, che l’attaccante più difficilmente diventa allenatore.
Quanto un ex calciatore risulterà credibile con addosso i vestiti da adulto. Tutta qui l’equazione che spiega il successo di un allenatore. Lippi, e tutti gli altri con la precoce chioma brizzolata, lo hanno capito bene. A Coverciano lo hanno capito bene. Per questo hanno scelto Ulivieri come capo degli allenatori. Non c’è stato forse allenatore più incappottato e lanoso nella storia del calcio italiano. Per questo il primo giorno di scuola a parlare è Rivera. Non c’è forse ex giocatore con una chioma altrettanto presidenziale e brizzolata che possa fungere da esempio alle nuove generazioni.
Quella del 2015 è la classe meno appariscente degli ultimi anni. I giornalisti non sono nemmeno andati a fotografarli. C’è solo qualche foto pixelata sul sito della FIGC, il cui “notiziario” non viene aggiornato dal 2011. Un paio di quotidiani locali hanno pubblicato la notizia in poche righe, i pochi nomi noti della scolaresca, a ridosso di un coupon per menù fisso autunnale di funghi alla trattoria più vicina al centro tecnico. Rivera si passa una mano dolcemente disperata fra le forti fibre del suo parruccone. Prova ad infondere coraggio ad un manipolo di ex calciatori di mezza età, biascicando con la sua parlata flemmatica qualche battuta, un paio di frasi fatte, due o tre aneddoti su Italia Germania. D’altra parte lui non ha mai allenato.
I candidati si sono preparati in modi diversi per questa mattinata speciale. Alcuni di loro hanno rifiutato le attenzioni di mogli vogliose, prima della lunga assenza da casa. Come prima di una partita hanno praticato l’astinenza, per preservare le poche energie mentali rimaste, dopo un anno sul divano a guardare interminabili postpartita.
“Sto studiando, lo capisci o no?” Voci stridule e capricciose distorte dalla paura di fallire e dalla spocchia di chi sta per passare dall’altra parte della linea laterale. Le mogli hanno abbozzato, conscie di dover sperare nel successo dei mariti. Per finire le iniezioni di Botox, pagare il corso di tennis al bambino, permutare la vecchia Smart per una nuova di zecca giallo canarino. Hanno tentato di abbottonare camicie, infilare gemelli, sistemare rade e indomabili capigliature troppo bizzose per l’età dei consorti. “T’ho detto che vado in tuta, va bene? No, la barba non me la faccio, non ho voglia di passare per un fighetto già dal primo giorno!”
Alcuni di loro si sono presentati in giacca e cravatta al primo giorno di scuola. Hanno passato qualche settimana nei corridoi dei loro vecchi club, sperando di essere notati. Con un faldone di fotocopie in mano hanno inseguito allenatori già troppo nervosi per dedicare loro una parola buona, qualche consiglio. Perlopiù si sono sentiti ripetere le stesse storielle sul supercorso, la descrizione di sbronze epiche, di irruzioni notturne nelle stanze di Di Francesco, di scherzi da militare. I passaggi segreti per andare dalle signorine in paese, come se si dovesse ancora scappare da un allenatore sergente durante il ritiro.
La classe è composta da qualche personaggio attempato, già allenatore di giovanili, un paio di tattici e viceallenatori, seriosi e al telefono coi propri padroni, e qualche fresco ex giocatore con l’espressione ancora abbastanza ottusa da sembrare un giocatore. Molti di loro inizieranno in Lega Pro, molti altri finiranno in Lega Pro. Qualcuno verrà risucchiato dal triangolo delle Bermuda dei dilettanti, e rimarrà a ciondolare su quella gigantesca e spettrale nave fantasma che è la Serie D. Alcuni, pochissimi, finiranno su una panchina di B, dove verranno condannati da un’intervista di Sacchi: “è un ragasso molto serio e preparato”. Uno o due di loro alleneranno in serie A. Almeno per qualche mese. Ognuno di loro è convinto di potercela fare. Per un crudele scherzo del destino, più è stata mediocre la loro carriera e più sono certi di potersi riscattare in panchina.
Alla fine del primo giorno di scuola Ulivieri è sfiancato. Si mette a letto, spegne la luce ma non riesce a distogliere la mente dal registro, dai nomi, dalle facce squadrate e deformi dei suoi novizi. Ulivieri si rigira nel letto inamidato del centro tecnico. Nudo. Ulivieri suda. Ulivieri sogna. Rivede i tanti studenti delle annate precedenti. Gli occhiali da Top Gun di Ballardini. Il piumino viola di Prandelli. I ridicoli cappelli di Cosmi. Lo sciarpone del Mancio. Il futuro della classe 2015. Anche loro, nei suoi sogni, sono nudi. Chi si prenderà cura di loro? Verranno strattonati e coperti di stracci da orchi come Cellino e Zamparini? O avvolti dal torpore delle aristocratiche mani di Pozzo e Campedelli?
Asta Antonino:
Tuta acetata e sciarpone da tifoso. Calvizie in stato avanzato. Un inizio incoraggiante, prima nella trafila delle giovanili del Torino, poi a Monza e per finire al Lecce decaduto in Lega Pro. Gioco ficcante con predilezione per le fasce laterali, naturalmente. Una sola vittoria in sei partite: esonero. Un futuro di continue dichiarazioni polemiche contro tifoserie mai sedotte. Commentatore per una televisione locale, fondazione di scuola calcio, apertura di bar tabacchi.
Birindelli Alessandro:
Camicia bianca inamidatissima con collettone oversized, jeans casual. Stempiatura inarrestabile portata con dignità.
Dopo l’esperienza da vice di Bonetti nello Zambia, una breve parentesi alla Pistoiese e un’altra da vice ancora con Bonetti alla Dinamo Bucharest. Diventa dirigente delle giovanili nel Trapani. Passa qualche anno più tardi alla primavera della Juventus, poi a quella dell’Empoli. Un paio di stagioni in serie B. Allenatore in seconda di Mark Iuliano per il resto di una lunghissima e ripetitiva vita, fatta di racconti sussurrati nelle orecchie di talentini nervosi e di strette di mano rifiutate dopo sostituzioni sgradite.
Brocchi Cristian:
Tutina sintetica tecnica dopo una sconfitta, giacca e cravatta dopo una vittoria. Testa rapata con calvizie “vedo non vedo”.
Allievi, poi primavera del Milan. Tutto in discesa, amico di tutti. Poi un giorno, l’orrore. Subentrato sulla panchina della prima squadra, soffocato dagli elogi del presidente. Mancata qualificazione in Europa League. Un anno a casa, panchina della Lazio. Ultima chance. Fallita. Una vita in serie B, allenatore grintoso ma senza gioco. Commentatore per Mediaset, relazioni occasionali con soubrette, coma etilico sul divano di Bobo Vieri.
Franceschini Ivan:
Giacca della tuta e jeans. Scarpe da tennis argentate da giovane anziano. Cocciuta chioma da calciatore fino alla fine, anche a costo di trapianto. Gallico Catona. Non è un nomignolo ma una squadra di quartiere in Calabria. Poi le giovanili della Reggina. Infine solo un paio di esperienze in interregionale e profondo senso di colpa per i soldi spesi per l’iscrizione al supercorso. Divorzio, alcolismo, stalking e minacce alla cassiera di un supermercato nel suo quartiere.
Marcolini Michele:
Bomber o piumone, pantaloni della tuta, scarpini da calcio. Solidissimo ciuffo rosso cementato da cera cosmetica. Lumezzane, è sempre un piacere. Vicenza, niente male. Pavia, tutte le feste si porta via. Tanta gavetta, e da allenatore non basta qualche tiro da fuori a cancellare prestazioni incolore. Ma la fatica paga, e una panchina del Chievo non gliela toglie nessuno. Qualche esonero, qualche ritorno, rispettato da amici e colleghi. In età avanzata una chance al Venezia degli americani tornato in serie A. Poi un consapevole e mesto ruolo da traghettatore.
Pavan Simone:
Camicia bianca aderentissima con capezzoli in mostra in qualunque condizione atmosferica. Giubbotto scamosciato. Lunghissimi capelli neri oleosi. Allievi nazionali del Portogruaro non è una milizia di leghisti. Subentrare a un vecchio volpone come Novellino sulla panchina del Modena non è uno scherzo. Meglio tornare a studiare, dopo qualche giornata. “Ma resta a disposizione dei canarini”. La chiamata non arriverà mai. Gira e rigira, fra Veneto e Friuli se le farà tutte. Le panchine, si intende. E ad ogni paesino, ad ogni panchina, un cuore infranto. Il suo. Lascia prematuramente il mondo del calcio per motivi di stress, se ne perdono le tracce.
Saurini Giampaolo:
Tutone e giaccone d’ordinanza, abbottonatissimo e con borsello. Capelli mossi e tutti all’indietro, ciuffo e tirabaci, barba incolta. Primavera del Brescia, primavera del Napoli. Autunno alla Juve Stabia, inverno all’Avellino in serie B. La bella stagione tarda e non arriverà mai. Squadre tignose, un cagnaccio da serie cadetta per tutta la vita. Picchia i giocatori, insulta gli arbitri, stabilisce un record di espulsioni da allenatore. Si gioca i playoff un paio di volte, senza vincerli. Chiude da direttore sportivo di qualche remota località montana in Basilicata o Molise.
Tacchinardi Alessio:
Elegantissmo completo nero con cravatta nodo doppio Windsor coefficente di difficoltà 3. Capelli neri tinti, riga al centro, consistenza rada mascherata da parrucchieri delle dive. Pergocrema, Brescia, Pergolettese, in attesa di chiamata riparatoria dalla Juve. Ingrati. Commentatore per Sky. Poi, un po’ per vendetta, diventa un odiatissimo e polemico procuratore di grandi talenti. Parla spesso di stile Juve con una nota amara di malinconia nella voce strozzata dai danni alla tiroide. All’età di cinquant’anni il riscatto. Crea una fondazione contro il doping nello sport e riceve onoreficenze dal Coni. Dopo alcune telefonate notturne, qualcuno dice minacciose, il premio di un piccolo posto fra le gonne della Vecchia Signora.
Villa Matteo:
Non esistono foto di lui. Si dice abbia la stessa capigliatura ordinata da difensore ordinato di un tempo. Buraghese? Boh. Mapellobonate? Non scherziamo. Nessuno sa che fine abbia fatto. Risucchiato dai misteri e dai funesti mari in tempesta della serie D. Nel 2032 un piccolo trafiletto su Il Cittadino di Monza e Brianza: l’ex calciatore ritrovato nudo e in stato confusionale nei boschi del Parco dei Colli Briantei.
Zago Antonio Carlos:
Camicia e giacca della tuta a inizio carriera. Giacca e cravatta scudettate negli anni successivi. Cappottone di cammello a fine carriera. Lucidissima pelata integrale, pizzetto brizzolato. L’unico straniero del supercorso. Inizi in Brasile, poi un paio di stagioni al fianco dei grandi maestri. Zeman, il suo mentore. E Lucescu, il più intelligente di tutti. Carriera multiscudettata in Brasile, fino alla nazionale verdeoro. Coppa del mondo in India 2030. Vittoria ai rigori contro l’Italia campione in carica di Ancelotti. Interviste da santone, graffiti nelle strade di Rio. Il celebre sputo solo un aneddoto divertente di un passato remoto e pittoresco. A ogni occasione ripete le stesse parole: “Devo tutto all’Italia, e al supercorso di Coverciano. Mi ritengo fortunato ad essere stato uno degli ultimi studenti, prima della sua chiusura. Dedico le mie vittorie a Renzo Ulivieri. L’ultima volta che ci siamo visti ero andato a trovarlo a casa. Era già costretto a letto dalla malattia. Si tratta di uno dei miei ricordi più dolorosi. Ricordo che mangiava tonno da una scatoletta, masticando rumorosamente. Era nudo, sudava. Come coperta aveva solo il suo mitico cappottone portafortuna, quello della promozione col Bologna.”