18 Luglio 1939, ore 01:35. L’incedere ritmato del treno speciale della Federazione Italiana Giuoco Calcio, partito in perfetto orario e salutato dai marmi ipertrofici della stazione Centrale, scandisce la marcia della nazionale di calcio bicampione del mondo verso Helsinki, dove è attesa per un incontro amichevole contro i padroni di casa. Il convoglio ha appena toccato Zurigo e viaggia sbuffante nella notte svizzera, lanciato a velocità futurista verso Monaco, dove la comitiva azzurra dovrà effettuare la prossima sosta.
Nell’ultimo scompartimento del vagone, celati da una spessa tenda di velluto dai ricami littori, gli anziani della squadra sono riuniti di fronte a un improvvisato tavolo da gioco. Meazza, che è già sotto di tredicimila lire, tormenta con le dita l’ennesima mano perdente della serata. Quando Piola si strofina il nasone come è solito fare quando vuole dissimulare la sua soddisfazione e finalmente si decide a calare l’asso di denari, al Balilla del Gol non rimane che contemplarlo dietro ai suoi occhi color vetro mentre allunga le mani ossute su un altro discreto piatto. Dal portafogli ormai spoglio di banconote, sua madre Ersilia lo scruta apprensiva da un vecchio fotoritratto.
“Esco a fumare” annuncia con disinvoltura mentre rinchiude di nuovo sua madre nel portafogli. “Stai attento Peppìn” lo mette in guardia Foni “Pozzo é sicuramente di vedetta in corridoio”. “Ma il Commendatore non dorme mai?” domanda incredulo Gino Colausig, ora italianamente noto come Colaussi II. “Resta qui a fumare piuttosto, se no chi lo sente” suggerisce Piola. Il Balilla afferra con una mezza smorfia il portasigarette d’argento appartenuto a D’Annunzio donatogli dal senatore Borletti, ex presidente dell’Ambrosiana e amico personale del Vate. Poi esce, facendo scorrere la porta alle sue spalle. Percorre il corridoio deserto e flebilmente illuminato, assorbendo gli scossoni delle rotaie fino a raggiungere l’estremità opposta del vagone. Si guarda rapidamente attorno prima di portarsi alle labbra una sigaretta, svizzera anch’essa come la notte, strofinando poi il fiammifero, svedese per natura, contro il corrimano. Al di là del finestrino, una luna rancida come la sua infanzia di orfano di guerra appare fioca sopra le montagne. Sul portasigarette è incisa la scritta “QVIS CONTRA NOS?”. Chissà cosa vuol dire, si chiede ancora una volta Peppìn rigirandoselo tra le dita.
Al primo tiro di sigaretta chiude gli occhi, cercando nel buio dei pensieri le generose labbra del suo primo grande amore: Doris, bionda e istriana, era la grande attrazione della casa di tolleranza di Porta Romana, dove il suo compagno di squadra Poldo Conti lo aveva portato per la prima volta per assicurarsi che il Balilla diventasse finalmente uomo.
Al terzo tiro, la mano che non regge la sigaretta scivola all’interno della tasca dei pantaloni di fustagno, per riprendere il discorso interrotto con Doris quella mattina in cui era andato a trovarla per l’ultima volta, a meno di due ore da un derby. Di lì a qualche giorno lei avrebbe cambiato nome, indirizzo, città, scomparendo nel nulla e abbandonandolo ai misteri dell’età adulta.
Naufrago nel suo sentimento intriso di nostalgia barzotta e dimentico di tutto il resto, il Balilla non si avvede della mano del commissario unico della nazionale che si posa ferrea sulla sua spalla, mentre il tunnel inghiotte in un sol boccone il treno della Federazione nelle fauci della montagna.
19 Luglio 1939, ore 18:06. Il treno degli azzurri ha impiegato una giornata e mezza per attraversare il Reich alleato, dribblando in scioltezza Norimberga, Dresda e Berlino. Ora punta ora dritto verso Stettino, prima di imboccare il corridoio di Danzica. A Vittorio Pozzo i tedeschi sono sempre stati sull’anima, fin dai tempi in cui da tenente degli Alpini si era trovato a combatterli in trincea durante la Grande Guerra. Ha già il fondato sentore che dietro questo Patto d’Acciaio aleggi la promessa di una reciproca fregatura. Assecondando la sua piemontesissima prudenza, si guarda però bene dal confidare ad anima viva i propri timori, concentrandosi piuttosto sul discorso da fare alla squadra, mentre seduto nel vagone ristorante affonda con lentezza il cucchiaino nella panna cotta tremolante.
Ora che ci pensa, anche i finlandesi gli stanno qui, ancor da prima dei tedeschi. Più precisamente da quando, alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912, era stato costretto a dimettersi dal suo primo incarico come commissario tecnico a causa di una inaspettata sconfitta al primo turno proprio contro quei dannati mangiatori di foche. Un’onta personale che può venire finalmente lavata, dopo 27 anni di paziente attesa.
Pozzo non può contare sui giocatori del Bologna impegnati in Mitropa Cup, ma ha comunque gente come Piola e Meazza in squadra. Puttanieri e giocatori d’azzardo a tempo perso, d’accordo, ma pur sempre campioni del mondo. Per la prima volta nella sua storia la nazionale giocherà con i numeri di maglia sulla schiena. Piola avrà il 9, Meazza il 10, ha deciso il Commendatore.
Ore 22:10, confine polacco. Il Balilla stasera non ha voglia di giocare. Piola voleva tirarlo dentro per una rivincita. Anche se al momento non ha in tasca un quattrino tutti sono pronti a fargli credito, ci mancherebbe. Da vero capitano non ha mai abusato della sua posizione e ha sempre pagato i suoi debiti, è benvoluto da tutti in squadra anche per questo. Ma questa sera ha preferito passare la mano, dando la colpa alla cattiva digestione e a quella panna cotta piemontese dell’ostia. Piola e gli altri vecchi non hanno insistito e si sono diretti verso lo scompartimento a fianco per pelare il neo-convocato Battistoni.
Peppìn cerca di prendere sonno, ma proprio non gli riesce. Da qualche tempo il suo corpo gli manda segnali poco incoraggianti. Per esempio il piede destro ogni tanto si indolenzisce senza apparente motivo, facendosi freddo come il marmo. Si è già fatto visitare in gran segreto da un professorone raccomandatogli dalla sciura Ersilia, che però si è limitato a suggerirgli inutili pediluvi con schifosissime alghe rosse dal costo esorbitante.
Persino la Doris non riesce a distrarlo a dovere stasera. Anche l’amore talvolta può venire a noia, come il Balilla ben sa. Allora cerca rifugio nella cosa che meglio lo rilassa e lo predispone al sonno in queste circostanze: proiettare nella sua mente un cinegiornale privato che mostri le azioni di gioco migliori e i gol più belli che gli siano riusciti in carriera.
Le azioni che preferisce sono quelle in cui riesce a dribblare un paio di difensori, presentandosi poi davanti al portiere per farlo sedere con una finta ed entrare infine con il pallone in porta, quasi passeggiando. È un giochetto che gli è riuscito diverse volte, grazie anche al suo leggero strabismo che manda in confusione gli avversari che non sanno mai esattamente in che direzione voglia puntare, e che occupa sempre un posto d’onore nel suo cinegiornale mentale.
Gli basta chiudere gli occhi per rivivere l’incontro della Coppa Internazionale del 1931 contro la fortissima Austria, che fino a quel giorno ha spesso umiliato a suon di reti gli azzurri. In un’azione di rimessa riceve palla a metà campo e si invola da solo verso la porta. Arrivato al limite dell’area sente il fiato sul collo dell’ultimo difensore che cerca disperatamente di recuperare. Nello stesso istante il portiere esce precipitosamente e gli si para davanti. Con una sterzata improvvisa disorienta i due avversari e li fa scontrare tra loro come in un film di Ridolini, dopodiché entra indisturbato in porta con la palla sempre incollata al piede. Finisce 2-1 per l’Italia: il pubblico milanese applaude il suo Balilla, i compagni lo sommergono di abbracci.
Negli spogliatoi Vittorio Pozzo è il primo a intonare commosso la Canzone del Piave, seguito a ruota da tutta la squadra, che canta a squarciagola. Si unisce al coro anche un giovane vestito da soldato. Il medico della nazionale gli sta accanto e cerca di tagliare una fasciatura lacera e consunta che gli avvolge la testa. Il soldato non sembra curarsene e continua a cantare battendo le mani.
Il Balilla incuriosito chiede all’oriundo argentino Mumo Orsi se conosca quel tipo. Orsi annuisce: “Claro, si chiama Annibale. È un tuo grande tifoso. Viaggia anche lui sul nostro treno, vuole esserci a tutti i costi a Helsinki per vedere la tua ultima partita in nazionale”.
Peppìn cerca di avvicinarsi per osservarlo meglio. Il soldato ha una gran brutta ferita alla tempia, che il medico tenta ora in qualche modo di suppurare. La sua voce è profonda, i suoi occhi grigi persi nel vuoto.
“Muti passaron quella notte i fanti: tacere bisognava andare avanti”.
Meazza cerca adesso di nuovo con lo sguardo Orsi, senza riuscire a ritrovarlo. “Come sarebbe a dire la mia ultima partita?” vorrebbe chiedergli improvvisamente turbato.
Dagli spalti dello stadio intanto riecheggia un crepitare di mortaretti fatti esplodere dai tifosi. Prima più tenue, poi sempre più insistente. La voce del soldato di fanteria Annibale Alberto Meazza ora sovrasta quella degli azzurri, che uno dopo l’altro smettono di cantare e rimangono ad ascoltarlo ammutoliti. Il suono dei mortaretti si accentua, mentre il milite sanguina ormai copiosamente dalla tempia senza smettere di gridare:
“Era un presagio dolce e lusinghiero. Il Piave mormorò: non passa lo straniero!”
Il Balilla si sveglia di soprassalto nell’attimo stesso in cui Foni fa irruzione nel suo scompartimento. In lontananza si odono distintamente alcuni colpi di cannone. “Peppìn, hai sentito? Pozzo dice che sono i crucchi che fanno le manovre. Vuoi scommettere cinquemila lire che questi entro un paio di mesi si mangiano anche la Polonia?”
Meazza richiude gli occhi con un sospiro rauco. “D’accordo, Foni. Facciamo diecimila?”
20 Luglio 1939, ore 17:00. Helsinki Olympiastadion
Finlandia: Sarnola, Leskinen, Karjagin, Lahti, Pyy, Rinne, Eronen, Granström, Lehtonen, Weckström, Lintamo
Italia: Olivieri, Foni, Rava, Depetrini, Battistoni, Locatelli, Ferraris, Perazzolo, Piola, Meazza, Colaussi II:
RETI: 12’ Piola, 22’ Lehtonen (F), 28’ e 84’ Piola, 87’ Weckström (F)
Arbitro: Eklind (Svezia)