Parigi, Matmut Atlantique, 2 luglio 2016
È l’Italia dei vecchi. Lo abbiamo scritto prima dell’Europeo e lo scriviamo ancora, perché i risultati non cambiano le carte d’identità. Ma questa parola, “vecchi”, oggi ha un significato diverso. È l’Italia dei vecchi e così deve essere, doveva essere, così è giusto che sia. E speriamo, tanto vale dirlo subito, che oltre a essere l’Italia dei vecchi sia anche la vecchia Italia, quella che con la Germania non perde mai.
L’Italia dei vecchi e del vecchio Ancelotti è arrivata ai quarti, con pieno merito, ma non è stato facile. Per portare la squadra dove è arrivata, il commissario tecnico non ha guardato in faccia a nessuno, come si dice in questi casi. Anche perché, dicono in questo caso particolare, nessuno poteva più sopportare alcun accenno, neppure vagamente ironico, all’altezza ormai spropositata della sua arcata sopracciliare.
La grande capacità comunicativa del nostro tecnico è stata utile per gestire questo manipolo di veterani, di giovani responsabili e senza fronzoli e soprattutto di talenti quasi trentenni o addirittura ultratrentenni, mai completamente espressi. Già, perché nell’Italia dei vecchi anche i giovani sono vecchi nell’animo, e vecchi all’anagrafe sono sono pure i talenti da disciplinare, vecchi che dovevano fare gruppo ma che, sotto pelle, minacciavano un’anarchia fuori dal tempo, un’anacronistica carica di ribellione.
Temevamo l’ammutinamento, invece Ancelotti, sempre calmo, sempre pronto a spendere una parola buona nel momento giusto, ha saputo tranquillizzare tutti. I calciatori, i giornalisti, l’ambiente in generale. Fino al primo momento della verità, quello di stasera.
Ancelotti ha saputo mettere in panchina, contro tutto e tutti, un portiere di grande talento come Perin, affidandosi a De Sanctis. Fischiato nelle ultime amichevoli, l’esperto e cupo portiere ha salvato la nostra porta in almeno tre occasioni, e per il resto ha dato al reparto la sicurezza indispensabile in una manifestazione di questo livello.
La stessa scelta Ancelotti l’ha operata in difesa, dove ha preferito la timida solidità di Rugani all’esuberanza di Romagnoli. In questo modo l’insostituibile Paletta ha potuto prescindere dal compito di tenere a freno il compagno di reparto e ha potuto essere quello che è, nel bene e nel male, un roccioso marcatore senza manie di comando.
In mezzo al campo i problemi fisici di Verratti e Marchisio, i dubbi sulla tenuta atletica di Pirlo in un torneo così intenso e l’addio al calcio di Thiago Motta, annunciato un’ora prima delle convocazioni, hanno costretto il CT a scegliere un regista appena accettabile a livelli così alti. Bocciato Magnanelli, rimandato eternamente a settembre Jorginho, brasiliano taciturno ma colmo di rabbia, è giunta finalmente l’ora di uomini fedeli all’anonimato come Vives, Cigarini e Vecino, gente che sa giocare a calcio, certo, ma prestanome più che titolari. O almeno così credevamo, perché questo centrocampo senza fantasia ha dato più di quanto ci si aspettasse: geometrie essenziali, corsa, abnegazione e tiro da fuori.
Già, la fantasia. A volte le cose sono semplici, e tra esse c’è anche la fantasia. Nel calcio serve la fantasia e noi la fantasia ce l’abbiamo, quella vera, irrefrenabile. La fantasia che non ha età, non ha punti deboli perché semplicemente non ha punti. Sta lì dove sta e dove l’hanno messa i geni, la sorte, il destino.
Questa, in fondo, è stata la grande intuizione di Ancelotti. Un’intuizione che in fondo non è esattamente un’intuizione ma piuttosto un ricordo, uno strascico, un residuo di un calcio remoto, quello in cui Ancelotti era giocatore e non ancora allenatore. Il calcio degli anni ottanta, in cui bastava mettere 7-8 onesti corridori con un briciolo di iniziativa e nessuna paura dell’errore al servizio del genio. Un calcio più semplice e nella sua semplicità più divertente, ma anche efficace.
E così, dopo anni di esperimenti con il possesso di palla e il piede felpato, con la fantasia costantemente sminuita (o sostenuta, dipende da quanto vogliamo essere cattivi nei confronti dei vari Diamanti, Aquilani e di tutti gli altri presunti piedi buoni di cui, finalmente, abbiamo deciso di fare a meno) l’Italia scelta da Ancelotti è stata l’Italia del genio. E il genio nell’Italia del calcio risponde soltanto a due nomi e mezzo: Totti e Cassano, insieme a un sorprendente Balotelli. Grazie agli altri loro possono esprimere il talento e la fantasia, e grazie a loro la nazionale può contare su uno dei reparti più imprevedibili e temuti degli ultimi trent’anni.
I difensori avversari hanno tentato di provocarli a ogni partita con insulti, pizzicotti e colpi proibiti sotto la cintola, perché innervosirli è sembrata l’unica arma per proteggere la propria porta da orrende figure. Ma quando i tre giocano senza pensare l’Italia vince, punto e basta.
Ed è proprio quello che è successo.
La vittoria (finora) di questo tridente è motivo d’orgoglio per Ancelotti e per l’Italia, inutile girarci intorno. Ma stasera ci sarà il primo, vero banco di prova per questa Italia vecchia nello spirito, negli anni e nella filosofia. Un banco di prova che fa paura ma solletica quella sensazione tutta italiana di essere gli ultimi tra gli ultimi ma anche, nel momento giusto, inarrivabilmente primi. La partita andrà come deve andare. Mancano poche ore. Ma è adesso che dobbiamo fare i complimenti a questa squadra, prima che sia troppo facile trasformare questi complimenti in un elogio sfrenato o in una critica ingenerosa. L’Italia di Ancelotti è arrivata molto più lontano di quanto pensavamo. Speriamo che sia uno di quei momenti storici. Mancano poche ore e in queste ore lo crediamo tutti.
Italia – Germania
Probabili formazioni:
Italia – De Sanctis; Zappacosta, Paletta, Rugani, Criscito; Cigarini, Vives, Vecino; Totti, Balotelli, Cassano. A disp: Perin, Scuffet, Romagnoli, Stendardo, Pasqual, Abate, Benassi, Rizzo, Padoin, Gilardino, Vazquez, Rossi All.: Ancelotti
Germania – Ter Stegen; Boateng, Hummels, Howedes; Kimmich, Khedira, Kroos, Hector; Muller, Gomez, Ozil. A disp: Leno, Trapp, Mustafi, Tah, Can, Weigl, Podolski, Schweinsteiger, Sané, Schürrle, Götze, Draxler All.: Loew
Intanto, nascosti ovunque nella nostra penisola, anche i nostri ragazzi si preparano alla grande notte.
I portieri
Gianluigi Buffon, Carrara (MC), 38 anni, proprietario del bar principale di Piazza Alberico, Carrara
La consumazione obbligatoria è obbligatoria, questo è il concetto che Gianluigi, detto Luigi perché è più facile da ricordare, cerca di far passare alle ragazze. Sono in tre, basteranno, più il ragazzo dietro al bancone, due in cucina e lui dà una mano ai tavoli. Da giorni ripete il concetto: bisogna far pagare tutti, appena si siedono sono 7 euro a persona. Se non lo sanno, glielo si spiega e se restano seduti, sono 7 euro. E nei 7 euro c’è una birra e una coppetta di pop corn e salatini. Nient’altro, se vogliono altro, ordinano da mangiare. Devono pagare tutto. Stasera c’è Italia-Germania e Luigi è su di giri.
Per l’occasione, ha chiesto a Sonia del panificio il doppio dei panini consueti, non uno di più. Altra cosa importante, quando finisce il cibo fresco, si prende quello vecchio e, quando finisce anche quello, finisce e basta e non ci devono essere problemi per nessuno. Dopo si va avanti con patatine e pop corn e salatini. Se qualcuno si lamenta ci parla lui, ma non si lamenterà nessuno. È uno a cui tutti portano rispetto. Un po’ perché suo padre era suo padre, un po’ perché Luigi è grosso e non si fa zittire da nessuno. I prezzi del suo bar nessuno deve permettersi di definirli alti, anche se lo sono. E allora bisogna dire che sono giusti e in fondo, a prescindere dai prezzi, il locale sarà pieno. Ipotesi realistica, garantita anzi, e questo non certo perché suo padre era suo padre e nemmeno tanto perché al bar della piazza ci si vada per forza, ormai ce ne sono tanti. Sarà pieno soprattutto per il fatto che le ragazze sono carine, hanno tanti amici, parlano con tutti, servono bene, qualcuno passa a salutarle, si danno appuntamento al suo bar. Certo, è un po’ troppo potere delegato a poche ragazze per giunta amiche tra loro, pensa sempre Luigi. Non bisogna farle sentire importanti. Sul piano lavorativo, lui è il padrone ideale e gli piace essere il capo. Nessuno può dire che paghi poco, quello che dà è il giusto, con contratto regolare, ferie e infortunio, tutto coperto.
Su quello personale è equidistante da tutte, loro non ci provano, lui nemmeno. Dopotutto Luigi ha quarant’anni, loro una ventina in media, il rapporto insomma è professionale. Si lavora, al massimo, con la fantasia. Anche se Marta la mora naturalmente gli crea un certo turbamento, di sicuro corrisposto, ma meglio non complicarsi la vita. Sposato, senza figli, Gianluigi Buffon, detto Luigi, figlio di una famiglia di sportivi e ginnasti di primo livello, aveva rilevato da giovanissimo con altri amici un’attività redditizia, un risto-bar in centro a Parma, la città dove studiava giurisprudenza e praticava il calcio, la sua passione. Gli affari nella piccola cittadina emiliana erano andati benissimo, soprattutto all’inizio, di lavoro ce n’era, tanto che il calcio ormai era diventato solo un hobby. Sarebbe stato, forse, un buon portiere, lo era ancora in un certo senso, perché il talento è talento, ma il grande salto non lo aveva voluto fare mai. Luigi, anche se la famiglia lo spingeva a fare il magistrato, una volta preso il pezzo di carta tanto agognato, aveva chiarito ai suoi genitori che si vedeva ormai solo nel campo della ristorazione, consapevole di essere abilissimo nella gestione di un locale, a prescindere da dimensioni o fatturato, bravo con il personale, con la clientela, sempre stato uno carismatico. Questione di mentalità. Poi una rottura con gli amici soci, un po’ di misteriosi debiti saltati fuori all’improvviso (è inevitabile indebitarsi nel commercio, ha spiegato più volte a sua moglie) e la soffiata di una grande occasione commerciale nella sua Carrara lo hanno spinto a lasciare Parma, in fondo senza troppi rimpianti. Sarebbe riuscito a farcela anche a Carrara, dov’era nato e cresciuto, da bravo cuore gialloazzurro.
La casa è la casa, il bar di Piazza Alberico in effetti si è rivelato una gallina dalle uova d’oro, la consumazione è obbligatoria e stasera l’incasso si prospetta speciale, grazie agli Europei. Ma lui un occhio allo schermo che ha sistemato con cura nel gazebo del suo locale lo butterà perché il calcio, seppur senza l’attaccamento di un tempo, lo segue ancora. È utile, negli affari, avere un’opinione su tutto. E allora, nessuno può contraddirlo quando dice che non gli piace quest’attacco di vecchi, proprio no. Cassano, Totti e Balotelli sono tre maleducati, gente che nel suo locale non potrebbe nemmeno lavare i bicchieri. Ma tant’è, finché vincono vanno bene, li tollera. Ha un sincero debole per chi vince. Tifare per una nazionale che vince lo fa sentire parte di un progetto più grande, gli fa pensare di aver fatto le scelte giuste. A dirla tutta, pensa che Ancelotti arriverà in finale di sicuro. Ed è così sicuro che ci ha puntato due soldi. Aveva promesso a sua moglie di non scommettere più, ma lei gli aveva messo ansia e a Luigi proprio non si può pretendere di dire come si deve comportare.
Forse è anche vero, come pensano tutti, senza azzardarsi a dirlo naturalmente, che gli errori di Parma qualcosa avevano a che fare con il gioco, le macchinette, certe puntate un po’ esagerate con gli amici, ma sono solo attività di provincia, birichinate, magari si è lasciato prendere la mano in qualche occasione. Ancora a volte ci casca, ma è per assecondare la sua voglia di grandi imprese. Luigi ogni tanto ha voglia di esagerare. Non gli sembra di ammazzare nessuno per questo. Marta la mora è venuta in gonna corta, glielo farà notare, non c’è alcun bisogno di mezzucci per attrarre la clientela. Mettiti i pantaloncini e la divisa e pensa a lavorare, le dirà.
Se l’Italia arriva in finale lui si infila in tasca duemila euro tondi tondi. Ha promesso alla moglie le Maldive e non gliele toglie nessuno. Le cose girano. Proprio non si può lamentare.
Federico Marchetti, Cassola (VI), 33 anni, laureato in giurisprudenza, lavora in uno studio di amici del padre a Vicenza.
Nella notte fra sabato e domenica sono continuati i pattugliamenti congiunti della polizia locale di Rosà, Rossano, Cassola, Tezze e Romano. Coordinati dal comandante del consorzio polizia locale Nordest Vicentino, Giovanni Scarpellini, hanno lo scopo di prevenire gli incidenti stradali monitorando le condizioni di guida degli automobilisti.
Il controllo si è svolto, oltre che lungo la statale 47, anche negli altri Comuni che aderiscono al consorzio e il bilancio è di 11 sanzioni. Il caso più clamoroso si è verificato in via Monte Asolone a Cassola: un automobilista, F.M., 33 anni, di Bassano, alla guida di una Mercedes cabrio, passato davanti a una pattuglia della polizia locale ferma lungo la strada ha compiuto con una mano un gesto ritenuto offensivo da parte dei vigili. Questi hanno avvisato i colleghi, a poca distanza lungo la stessa strada, i quali hanno fermato il bassanese e lo hanno sottoposto a test alcolemico. Il 33enne, studente di giurisprudenza fuori corso, aveva un tasso di 1,80 g/l rispetto al massimo consentito di 0,50: oltre alla denuncia penale, l’auto è stata sequestrata a fini di confisca e la patente ritirata. Si trattava peraltro di una patente nuova, visto che la precedente gli era stata ritirata a causa di altre bravate.
Salvatore Sirigu, Nuoro, 29 anni, ripara pc a Nuoro, con partita IVA.
Salvatore percorre via La Marmora con le mani in tasca e sembra un turista straniero. Forse perché per anni ha lavorato a Milano, ma ora è tornato a casa. Finito il contratto. Tornare dai genitori così, all’improvviso, è bello e brutto insieme. La famiglia è importante e lui non è così vecchio. Poi aiuta in casa, fa gli scherzi alla mamma, la fa ridere. Il papà è più silenzioso. E’ bello e brutto insieme. A sua madre, Salvatore ha spiegato che Dio ha voluto che i vent’anni lui se li vivesse pieno di forze e, sempre ringraziando il cielo, i vent’anni li ha esauriti, prosciugati, senza lo straccio di una malattia, neppure una febbre. Un orzaiolo. Un mal di denti. Poi basta. Queste comunque sono fortune e non bisogna dimenticarlo. Anche perché il fisico non accenna crolli. Se continua a non fumare e bere moderatamente, senza passione, può andare avanti riparando computer a Nuoro ancora un po’ e intanto cercare altro.
Altro. La mamma di Salvatore è una donna serena, che commenta senza cattiveria le notizie in televisione e si accontenta dei racconti di suo figlio. Il papà è più silenzioso, si fida poco, della televisione ma anche dei computer che ripara il figlio. Salvatore certi giorni resta ore davanti allo schermo, operazioni infinite, che non possono rendere orgoglioso un padre di suo figlio. Lui combatte con i virus, dice. Ma suo padre lo vede semplicemente eliminare definitivamente oggetti da cestini disegnati sullo schermo, tenere le macchine in azione anche tutta la notte. Perché ci vuole tempo per ripulire un computer dal veleno che circola nei suoi ingranaggi, replica Salvatore. Poi di solito, riesce a restituirli più lenti e mal funzionanti di prima, ma sani. Momentaneamente sani. In caso di ulteriori problemi, lui non ha esitazioni, quante volte suo padre gliel’ha sentito dire al telefono, spenga e riaccenda. Si dovrebbe riattivare e si riattiva sempre. Intanto cerca altro.
A tavola ai genitori, dice di inviare curriculum in giro. Inviare curriculum in giro, andare in giro, vedere la partita in giro. Chissà se non stava meglio a Milano, dice il padre alla moglie quando lui non c’è. Ed ecco Salvatore, in via La Marmora, semplicemente cammina, è un momento di pausa, in un’ora in cui non gira molta gente. Il suo migliore amico, insegnante alle medie dove hanno studiato tutti, Salvatore compreso, sbuca da un alimentari, fa dondolare sul fianco un sacchettino della spesa e intanto arranca assente con gli occhi incollati al telefono stretto a fatica nell’unica mano libera, incrociano lo sguardo, l’amico rinviene per un istante, lo saluta agitando il telefono, è di corsa, ma promette di chiamarlo per la partita. Meno male che c’è la partita, è un pensiero piacevole. Sempre stato, anche a Milano. La sua vita nella metropoli era decente. Assistenza informatica su commissione. Telefono, call center. E appunto, meno male, il calcio.
Quando non c’erano i colleghi o il gruppo di sardi emigrati che aveva incontrato tramite Rosanna, la sua ex ragazza di Santu Lussurgiu, studentessa alla Cattolica, c’erano i compagni di squadra dell’Accademia Sandonatese, in Eccellenza. Alla peggio c’erano i centri estetici, le saune, le lezioni di tango, la salsa con Rosanna, che ci teneva. Quando ci teneva. Il tempo libero era poco, solo la sera, ma la testa era dura, bisognava darsi da fare per inserirsi. Inserirsi, scavarsi una buca nella enorme metropoli, ritagliarsi uno spazio, per cosa non lo sapeva, forse solo perché era giovane e quindi era il suo dovere scavare buche, cercare il posto al sole. Scavare buche per emergere, a Milano è così. L’azienda era grossa, ma il lavoro per lui ha cominciato a scarseggiare. Da full time a part time. Da molto tempo a poco tempo. Cioè più tempo per giocare a pallone, sorrideva lui per tranquillizzare la mamma.
Poi però il lavoro è finito male e lui è rimasto ancora sei mesi a Milano per onorare il contratto d’affitto in zona Ortica e per giocare, concludere degnamente il campionato. Ma è stato un finale poco glorioso. Un’uscita sbagliata ha regalato il gol a tal non sapeva più nemmeno chi, un emigrato sardo con la testa come un porcospino, spine e faccia grossa, punta velenosa e la vittoria al Solbiasommese. L’aveva chiamata l’uscita, ma tra l’urlo e il movimento è passato un secondo di troppo. Tutto giusto, tranne il tempo. Non era la partita decisiva, ma per la salvezza era importante non perderla. Alla partita decisiva, d’altra parte, non è potuto nemmeno entrare in campo, doveva lavorare, un trasloco, dava una mano a un amico che aveva una ditta, unico suo aggancio per pagarsi le spese minime. Pochi soldi ma non poteva rifiutare, altrimenti non l’avrebbe chiamato più.
Nonostante Milano e le sue esperienze non raccontabili e infatti mai raccontate, ecco che appunto, ancora, Salvatore cammina lungo via La Marmora. Nessuna preoccupazione eccessiva altera il suo percorso sulla strada che costeggia discreta la Cattedrale, sorvegliata a distanza dal monte Ortobene, nel suo piccolo deserto urbano personale, costruito sul colle che i nuoresi chiamano ‘sa tanchitta, un pezzetto di terra recintato da muretti a secco, per tenerci gli animali, quelli pronti all’uso. Ha le mani in tasca e ha pochi pensieri, nessuna tristezza, nessuna allegria, solo le mani nascoste alla vista, chiuse in due pugni, per nessun altro motivo se non quello di scaldarsi, mentre, in larghissimo anticipo, quattro ore prima di Italia-Germania va a occupare il tavolo dove lo raggiungeranno l’amico insegnante, la sua compagna e la sorella di lei. Forse anche Ciusa li raggiunge dopo, così mette un po’ di allegria.
In ogni caso, tra tutti, lui è l’unico che segue il calcio. Ne sa. E De Sanctis non gli piace. E’ uno sbruffone. Spera che Scuffet sia davvero il bravo ragazzo che dice di essere. Ma anche se fosse, gli basterà poco per rovinarsi. Suo padre lo dice sempre, a bassa voce. Ragazzini viziati, milionari, non sanno niente della vita.
QUI LA SECONDA PARTE, CON I DIFENSORI