Calcio in culo in un pomeriggio d’agosto

Calcio in culo in un pomeriggio d’agosto
27 Novembre 2015 scat

Parma, 26 agosto 2007. Fa caldo, il sole picchia in diagonale sul verde del prato del Tardini, un verde e un prato innaturali come lo sono tutti, dalla serie B in avanti. Silvio Baldini è stato appena espulso dall’arbitro Stefanini ma non ha intenzione di uscire dal campo. Dalle tribune piovono insulti vari, alcuni si perdono nell’aria ancora torrida e altri arrivano fino al campo ma sono smorzati, confusi. I tifosi pensano che Baldini stia perdendo tempo per conservare il pareggio, un 2-2 maturato in un primo tempo pieno di capovolgimenti di gioco ed errori grossolani e che adesso, dopo 40 minuti di assoluto niente, appare lontanissimo. L’allenatore del Parma, Domenico Di Carlo, prova a farsi carico del sentimento popolare – erroneo, incosciente, stravolto come lo è sempre dal desiderio di un assedio finale e di un gol all’ultimo minuto che non arriva quasi mai e, quando arriva, arriva sempre per caso – e protesta vibratamente. Con l’arbitro, con i guardalinee, con Baldini.

Ma Baldini non sta perdendo tempo. Baldini è perfettamente consapevole che la partita è finita da un pezzo e passerà agli annali come un pareggio ricco di gol, perché così dice il tabellino, ma povero in canna di emozioni, perché è così che è andata la partita anche se tra qualche settimana nessuno se lo ricorderà più. Baldini non vuole uscire dal campo perché è incazzato e perché sa che quel pareggio è immeritato, frutto della pochezza avversaria e della buona sorte. È la sua prima partita in Serie A dal 23 gennaio dell’anno scorso, sconfitta ad Ascoli condita dall’esonero. Baldini allena il Catania da una mezza estate e ha già avuto modo di farsi i suoi conti. La squadra è una mezza schifezza. Il Catania rischia seriamente di retrocedere, lui rischia altrettanto seriamente il quarto esonero in quattro anni e la sua stella rischia inesorabilmente di prendere a tutta velocità la curva che la porterà lontana dal firmamento del calcio che conta. Il Parma invece – quel Parma che due anni prima era suo ma che in fondo non gli è mai appartenuto – potrebbe fare un buon campionato. I giocatori ci sono, vecchi e giovani, esperti e affamati. Il pubblico è ormai un pubblico nobile e Di Carlo è rimasto in giacca e cravatta nonostante il caldo. Nobiltà, firmamento del calcio che conta e quel dannato pelato che continua a dargli fastidio, con i suoi movimenti misurati, le parole misurate, il gioco avvolgente senza brio. Ma perché non suda? Perché Baldini ha la sensazione che farà una carriera più lunga della sua? Dove sono tutti quelli che lo consideravano il futuro grande allenatore italiano? Schiacciato dal caldo, dal fallimento che incombe già ad agosto, dagli insulti che non riesce a cogliere e dalle mani veloci e ossute di Di Carlo, Silvio Baldini gli molla un calcio in culo. Così, come se fosse una cosa di questo pianeta.

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Domenico Di Carlo si gira di scatto e lo fissa. Stringe i pugni, allarga le spalle. Perde, per un secondo, tutto il controllo che con fatica – anno dopo anno, giornata dopo giornata – è riuscito a imporsi per diventare un calciatore e un allenatore stimato, nonostante tutti i limiti di cui è perfettamente consapevole. Di Carlo non viene da un esonero, ma da un onesto campionato di B in cui ha addirittura battuto Juventus, Napoli e Genoa. È all’esordio in Serie A, con una squadra interessante e un pubblico esigente. Sulla sua testa incombono pesanti dubbi, ma quella non è una novità. È dai tempi del Vicenza, quando su quella testa c’era ancora qualche capello indomito, che lo considerano inadatto. E invece eccolo lì, in giacca e cravatta e la forza di volontà è una cosa meravigliosa. Non sudare a 40 gradi? Basta volerlo. Basta volere e potere, vincere, attaccare, controllare il gioco. Ecco, soprattutto controllare il gioco, che equivale ad ammazzare il gioco. Questo Di Carlo l’ha imparato presto, in campo e in panchina. Ammazzare il gioco. Primo non prenderle. Secondo non spararla mai troppo grossa. Terzo protestare, sempre, ma senza mai farsi odiare. Quarto – e quinto, sesto, settimo e ottavo – aspettare, aspettare sempre che i risultati arrivano, come alla fine di un pomeriggio passato a studiare senza capire niente, o comunque troppo poco.

Ora però Di Carlo si ritrova a bordocampo a fare la faccia cattiva perché ha appena preso un calcio in culo. All’improvviso un fiotto di sudore gli scende dalla fronte e dal collo, sul viso e sulla schiena. Qualcuno gli mette una mano sulla spalla ed è precisamente in quel momento che finisce la sua follia. Istintivamente Di Carlo perde la rabbia e prova vergogna. Forse quella mano ha scoperto il mio sudore? Ha capito che è tutta una finzione? Cosa si fa in questi casi? Aspetto? Aspetto. Di Carlo segue l’accompagnamento della mano, si gira, torna in panchina a sorbirsi gli ultimi cinque, agonizzanti minuti di partita, perfettamente consapevole che il risultato ormai è quello, uno squallido 0-0 travestito da scintillante 2-2. Così, per cominciare con prudenza. Baldini, intanto, viene trascinato a forza negli spogliatoi.

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Aeroporto di Abu Dhabi, 27 agosto 2007. Walter Zenga sfoglia la Gazzetta dello Sport e più che sugli articoli si concentra sulle sue dita, macchiate d’inchiostro nero. Si chiede, pigramente, perché nel 2007 ancora non hanno trovato il modo di vendere all’estero una Gazzetta che non stinga. Non dovrebbe essere così difficile eppure evidentemente lo è. Zenga sa che dovrebbe prepararsi per il suo ritorno in Romania, ma non ne ha voglia. Dieci anni di viaggi alla periferia del calcio sono troppi per chiunque, figuriamoci per lui. Un altro anno in Romania, un altro anno di oscurità intervallata dalle telefonate dei giornalisti italiani per un commento sulla Serie A, per un ricordo del mondiale italiano, per un servizio di costume sugli italiani famosi all’estero e ignorati dalla patria ingrata. Dieci anni, troppi.

Arrivato a metà del giornale, Zenga riesce finalmente a strappare via l’attenzione dalle dita macchiate e i pensieri dal profondo est e si mette a leggere la cronaca di Parma Catania, un bel 2-2 offuscato da un gesto scandaloso di Silvio Baldini. Ma le polemiche a Zenga non interessano, lui è un uomo di calcio vero, non come questi sconosciuti codardi e attaccabrighe, probabilmente raccomandati, sicuramente raccomandati. Zenga preferisce leggere la cronaca della partita, che lui vorrebbe sempre molto più dettagliata, e le pagelle, la sua passione. E pensa che forse il suo momento potrebbe essere vicino. Forse l’anno prossimo, magari addirittura quest’anno, per una salvezza in provincia, ancora lontano dall’Inter ma un po’ più vicino. Anche perché la Serie A non è più la stessa. “Reginaldo è una furia”. “Budan è ancora indietro come condizione fisica”, “Baiocco motorino instancabile”. Gasbarroni come fosse un campione, Obinna come fosse il messia, Morimoto dal futuro luminoso. Zenga legge e capisce, senza formulare il pensiero, che la Serie A, appena cominciata, puzza già di latte andato a male, di qualcosa che ha perso il suo gusto di cose buone e tradizione e non lo ritroverà più. Forse sì, forse davvero, forse ora c’è spazio anche per lui.

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Stazione di Orbetello, 1 aprile 2008. Silvio Baldini ha bevuto troppo e la cosa non lo preoccupa minimamente. Campari e gin, come i ragazzini, e chissenefrega. Ha in mano il telefono ma non lo guarda, preferisce concentrarsi sugli schiamazzi di un gruppo di ragazzine che hanno perso il treno per tornare a casa e probabilmente vivono l’emozione più grande della loro vita. Baldini le guarda fumare, ridere, passarsi le mani tra i capelli, alludere per piccoli gesti a segreti pruriginosi, indicibili, al profumo di latte. O forse non alludono a niente, ma fa lo stesso. Comincia a suonare la campanella che annuncia l’arrivo di un treno, lontana, lontanissima e forse nemmeno quella è reale. Troppi Campari e gin, ma in fondo anche un solo Campari e gin è già troppo.

Baldini accarezza il telefono e tiene le braccia larghe per non sentire il bagnato sotto le ascelle. L’odore della sua pelle lo conforta, per qualche strano motivo. In Sicilia ragazzine così non se ne vedevano. Erano tutte troppo grasse o troppo basse, volgari, trucco fresco su trucco rinsecchito, sempre minacciose. Meno male che da oggi non dovrà più vivere in quell’isola merdosa. Non dovrà più parlare con gente strana, che chiede una cosa ma ne vuole un’altra completamente diversa e sempre inconfessabile. Non dovrà più sentirsi prendere in giro dai tassisti, dai macellai, dai camerieri. Non dovrà più avere paura di reagire. Le ragazzine che hanno perso il treno gli ricordano casa più del Campari e gin, più della pulizia della stazione, più dei panini piccoli e rinsecchiti a prezzi esorbitanti.  Baldini vuole scrivere un messaggio a Di Carlo e non si chiede le ragioni del suo desiderio. Prende il telefono e scrive. “Gli uomini veri sanno quando è il momento di andarsene”. Poi però si ricorda che non ha il numero di telefono di Di Carlo, non ce l’ha mai avuto. Cancella il messaggio. La campanella ha smesso di suonare o non ha mai cominciato.

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Di Carlo, nel buio del salotto di casa sua, con la televisione accesa ma senza volume, stringe anche lui il telefono in mano. Ha appena selezionato il numero di Baldini e vorrebbe scrivergli un messaggio breve, incisivo e distensivo. Forse potrebbe scrivere “mi dispiace che anche per te la stagione sia andata male, speriamo di ritrovarci sul campo presto e stringerci la mano, buona fortuna”. Lo scrive, lo rilegge, lo cancella. Poggia il telefono sul tavolo. In tv danno l’ennesima replica di Forrest Gump, un film che ha sempre odiato. Di Carlo pensa che dovrebbe riprendere in mano il telefono e scrivere di nuovo lo stesso messaggio, in fondo andava bene. Ma c’è un maledetto pensiero che non lo abbandona da ieri, da quando ha saputo che Baldini si è dimesso. È un pensiero troppo lontano dal suo progetto di vita, dal lavoro costante e dalla convinzione che l’esonero di venti giorni fa sia soltanto una battuta d’arresto in una carriera che sarà sicuramente lunga e piena di soddisfazioni se non proprio di trionfi. Un pensiero che non gli compete e che non serve a niente, ma sta lì. Di Carlo chiude gli occhi e parla, a voce bassa, al silenzio della stanza: “Signore, ti prego, fa che io non sia ricordato come quello che ha preso il calcio in culo”.