Valderrama arriva in ritardo.
Stanco e trafelato, spalanca la porta all’improvviso.
Dentro ci sono tutti, gli altri, che guardano il calcio.
Qualcuno si gira, ma nessuno lo aspettava.
Aspettavano il calcio e il calcio è iniziato all’ora del calcio d’inizio.
Qual è la domanda che Valderrama fa per prima.
Quanto stanno.
Per chi.
Chi ha segnato.
Quanto manca alla fine.
Ottenute risposte secche ma precise, può ordinare da bere e sedersi.
Ora finalmente saluta i più vicini, in fretta, ricambiato.
Diventato uno dei tutti, può avere altre curiosità.
Chi gioca. Chi non gioca. Chi parte dalla panchina.
Riesce a malapena a immaginare la sensazione di partire dalla panchina. Partire per dove. Perché. Per quanto tempo starà via. E quando tornerà sarà cambiato qualcosa, lì in panchina. Si parte sempre soli dalla panchina oppure si può scegliere con chi partire. E se il posto dove si va è troppo bello, si insinua l’idea di non tornare più.
Quanto. Chi. Quanto manca alla fine.
Fuori i nomi di chi gioca, anzi i cognomi, come a scuola, come negli uffici. Marco non basta. Marco van Basten, della famiglia van Basten. Non è per distinguerlo da un altro marco. È per assecondare la febbre dei nomi, degli elenchi, delle liste.
L’ossessione del tabellino. Il minutaggio dei giocatori. Le formazioni. Truppe scelte in base alla difficoltà della battaglia.
L’arbitro registra tutto sul suo taccuino, la scatola nera a prova di esplosione della terna, il registro di classe su cui nessuno studente può scrivere, pena l’espulsione da tutto. Oltre il tabù del taccuino, del registro, c’è una vita da sbandati, fuori dal campo e da ogni sistema di gioco. E fuori dai giochi c’è il grande oblio. Il nome, il cognome, il minuto in cui si entra, si segna, si esce, si viene sostituiti o prelevati dalla nonna perché il gioco fa venire il mal di stomaco, per evitare l’interrogazione in cui chiederanno di certo chi, quando, dove e forse persino inviteranno a speculare sul perché.
Meglio andare via, partire dalla panchina e sparire.
Meglio ancora non avere nomi, ricostruzioni di carriere, dati ufficiali, tabellini, meglio non essere registrati, pedinati dalla storia e dalla geografia.
Rinunciare al cognome dei padri e delle madri, non chiedere quello degli altri, non chiedersi da quale panchina sono partiti.
Dimenticare una buona volta la follia di voler sapere quanto manca alla fine.
Valderrama comincia a comprendere che il peccato originale è lì, nel taccuino dell’arbitro, strumento biografico, burocratico, spia di esistenze altrimenti libere di giocare semplicemente a pallone. Dal taccuino all’archivio federale, da un tabellino a un miliardo di tabellini, con sovraffollamento di cognomi, numeri, parentesi aperte e chiuse, liste verticali che offendono la memoria umana che autisticamente le subisce e le assimila.
A chi importa tutto questo ossessivo e paranoico cappotto troppo caldo di informazioni, questa smania di ricordare, di controllare, di verificare tutto. Valderrama ricorda la bellezza del giocatore ammonito due volte e rimasto in campo per dimenticanza dell’arbitro.
Non vuole ricordare il suo nome.
Che partita era? Chi, quanto, come, quando.
Arriva la birra ordinata e dimenticata nel bicchiere per qualche minuto di troppo. Quanti minuti. Quanti ne servono perché la schiuma perda consistenza.
È già calda. È un dato fisico, naturale, rassicurante. Come un piede che direziona un pallone o presume di farlo. Un piede, una birra, un pallone, la schiuma.
Come da bambini, quando si imparavano le parole ma solo per associarle a un suono.
Del cane era importante imparare che la c fosse k, del gatto che la g fosse gh.
La birra è calda. Il calcio è iniziato. Può essere sufficiente così.
E invece no, c’è ancora un nemico, un ostacolo.
“Il telecronista deve smetterla di chiamare quelle persone con il loro nome” urla Valderrama dalla sua sedia. “E che bisogno c’è di ricordare continuamente il minuto e il risultato.”
Strattona il suo vicino, che ora lo preferirebbe lontanissimo. Valderrama vuole dirgli qualcosa, ma all’orecchio.
Il vicino prova a dargli retta, con educazione.
Valderrama versa parole strane nel suo cuore, ma lui, indifferente non solleva neanche un sopracciglio.
Dopo aver finito, Valderrama si alza, lancia la birra calda sullo schermo, mentre la voce dalla scatola nera, dal satellite, dal taschino dell’arbitro sta ribadendo il punteggio. Poi esce, lasciando gli altri, tutti, allibiti.
Ma che ha Valderrama. Perché ci rompe i coglioni. Se non gli piace il calcio se ne stia a casa.
Il vicino di sedia di Valderrama, con calma, replica.
“Diceva cose strane era confuso, la sua birra era calda, la lingua suadente, i baffi producevano sul mio collo e sul mio orecchio un brivido che raramente ho provato nella vita.”
Nel silenzio prosegue: “lui vuole un calcio fluente. Ha detto così. Maglie diverse, undici contro undici, il pallone e niente ma proprio niente da ricordare. Lui vuole vedere. E sentire.”
Il vicino si alza e ordina una birra, senza dare importanza all’accaduto.
Uno dei tutti, ormai quasi tutti, prova timidamente a chiedergli cosa, cosa voglia sentire Valderrama durante una partita.
“Canzoni. Ha detto che vuole sentire canzoni.”
Sì, ma che canzoni.
“Le canzoni della partita.”
Il vicino vuota la birra fissando lo schermo, mutando la sua espressione indolente in una smorfia di terrore, con gli occhi spalancati e fissi sul cronometro dell’arbitro.
“E più di ogni altra cosa, Valderrama non vuole sapere quanto manca alla fine.”
Tutti guardano lo schermo.
E il calcio, non si sa come, inizia di nuovo.