Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera di un nostro lettore da Porto.
La storia del mio rapporto con il calcio si esaurisce in poche righe.
Il gusto per questo gioco ha subìto grandi oscillazioni, nel corso della mia vita, passando da una passione esagerata, alla delusione, fino all’indifferenza per tutto quello che succede tra le quattro linee. Ci sono delle fasi. Non ho una storia romantica da raccontare, di quelle in cui si giocava per strada scalzi con una palla di stracci. Le mie prime partite le ho giocate a scuola e ho sentito subito il fascino del pallone.
A quei tempi, vivevo a Porto e tifavo per il Porto.
Iniziai anche a vedere il calcio in televisione: diventai così un telespettatore, uno spettatore a distanza, vibrando, tossendo, addormentandomi vicino a persone che, nella mia immaginazione, erano tutte nella sala, insieme a me. 70.000 persone nella mia sala (erano tempi in cui lo stadio non aveva seggiolini, permettendo così ai tifosi di alternarsi tra stare in piedi e seduti: esistono in Inghilterra oggi interessanti movimenti di tifoserie che sugli spalti rivorrebbero le panche, i terraces, come le chiamano gli inglesi). Per grande fortuna (o sfortuna) e senza che io lo sapessi, ho scelto il momento opportuno per essere tifoso del Porto. Dopo quasi un secolo di vita, da dieci anni erano inziati i trenta migliori anni della sua storia. Io, imberbe, mi lasciavo viziare da tutti quei successi.
Alcuni anni più tardi, a metà dei novanta, avvenne il mio passaggio da telespettatore a spettatore.
Curiosamente, in una delle prime partite che ho visto allo stadio, il Porto sfidò il Milan, il colosso dell’epoca. Ancora con l’eredità di Sacchi, continuava ad essere una squadra molto forte e vinse con un bellissimo gol di Papin. In quanto spettatore abituale, diventai anche socio di un club. Diventai cioè un Associado. Per circa due anni ho seguito tra stadio e dintorni tutte le partite di campionato. Il Porto aveva una squadra piuttosto media, composta da un numero impressionante di giocatori quasi calvi. Pochissimi di loro dimostravano meno di cinquant’anni, una squadra di Benjamin Buttons, di Attilio Lombardo portoghesi (se qualcuno avesse qualche curiosità al riguardo, vada a dare un’occhiata alle facce di Semedo, Jaime Magalhaes, Fernando Bandeirinha o João da Silva Domingos Pinto).
Il capitano della squadra era João Pinto, uno dei pochi reduci della squadra del 1987 che aveva sorprendentemente vinto il titolo europeo (da notare: alla consegna della coppa, non staccò mai le mani dalla stessa, o per dirla in un altro modo, nessuno riuscì a toccare la coppa oltre a João). Pinto giocò titolare per anni e anni, come terzino destro e capitano. Per un certo periodo è stato celebre come “Il Capitano”. È stato anche autore di alcune dichiarazioni rivolte ai giornalisti che sono passate alla storia: “Il mio cuore ha solo un colore: l’azzurro e il bianco”, “I pronostici si fanno solo alla fine della partita”, “Superstizioso io? No, porta sfiga” e altre perle simili.
La squadra di questi anni era guidata da Bobby Robson, un allenatore che riuscì a farla giocare molto bene, cercando di esprimere il meglio da ogni singolo giocatore. Robson valorizzava le persone di cui si fidava. Un giorno, all’uscita dall’ascensore nel palazzo dove abitava, un ragazzino cominciò a fargli alcune domande sensate sulle sue scelte tattiche: Robson, colpito, lo prese sul serio e fece in modo che questo ragazzino frequentasse una scuola per allenatori in Inghilterra.
Quando passò al Porto, Robson pretese a tutti i costi che nel suo staff ci fosse anche il suo interprete portoghese che aveva lavorato con lui allo Sporting Lisbona, segno della grande fiducia che riponeva in lui. Come ogni vero allenatore, era soprattutto un grande osservatore, Bobby Robson. Quando andò via, staccai dal calcio per un po’ di tempo. Lo stadio era diventato un fenomeno di violenza di gruppo e la corruzione nelle istituzioni era enorme: mi defilai, mantenendo un interesse occasionale per quello che accadeva nel rettangolo di gioco.
Il resto della storia è risaputo, il ragazzo che aveva scoperto Bobby Robson era André Vilas-Boas ed il traduttore che lo aveva accompagnato era naturalmente José Mourinho. E io? Divenni uomo e il calcio smisi di seguirlo come una volta.
Lettera firmata