La parabola è perfetta. Abbastanza arcuata da scavalcare tutti, abbastanza tesa da non dare il tempo al portiere di recuperare. Ma soprattutto abbastanza curva da somigliare a qualcosa che non è, come tutto ciò che l’ha preceduta e tutto ciò che verrà dopo. Nella sua discesa il pallone accarezza la fronte della traversa, cambia appena angolo di caduta, poi rimbalza al centro della porta, a pochi centimetri dalla linea e a pochi centimetri dalla rete afflosciata. Arrivano gli applausi, degli altri giocatori in campo e di qualcuno che, per caso, passava di lì. Poi, come sempre, l’obiezione: “Non vale, non si può segnare da dietro la metà campo”.
Seguono parole di scherno, o una discussione, o una rissa. Ma prima di tutto questo, immancabilmente, tra la fine della rimostranza e l’inizio della reazione c’è un attimo di silenzio, il silenzio di chi non sa, o se sa non ricorda, o se ricorda chissà che cosa ricorda. Il momento di silenzio in cui, per pochi secondi, si può uscire dall’illusione e guardare la realtà per quella che è. Questo non è un campo di calcio. Non c’è l’erba, non ci sono le gradinate né le curve e nemmeno i cartelloni pubblicitari. Questo è un campo di calcetto. Questa è una partita di calcetto, un gioco a cui giocano tutti ma che quasi nessuno conosce. Un gioco in cui tutto vorrebbe essere qualcosa che inevitabilmente non è e non può essere.
Tanto per dire, nel calcio a 5 il gol da oltre la metà campo è perfettamente regolare, a meno che la palla non entri in rete direttamente da rinvio del portiere, come chiarisce autorevolmente la regola 16 del Regolamento del giuoco del calcio a 5. Il rinvio, tra l’altro, può essere effettuato soltanto con le mani ed entro quattro secondi. Ma questo, a chi ha gridato che no, il gol da oltre la metà campo non si può fare, non interessa, come non interessa nemmeno all’autore di quella parabola, perfetta per quanto fuori posto, né a nessun altro sul campo. A nessuno interessa il fatto che il retropassaggio al portiere possa essere effettuato soltanto una volta prima che il pallone superi la metà campo; o che la distanza, più volte reclamata e sostanzialmente sconosciuta, sia sempre e comunque di 5 metri; o che il dischetto posizionato a 10 metri dalla porta sia deputato all’esecuzione del tiro libero, una punizione speciale accordata dopo il raggiungimento del sesto fallo cumulativo di squadra; o che vada fatto un distinguo tra un pallone che scoppia prima di toccare i pali o un altro giocatore (il gioco si ferma) e un pallone che scoppia dopo essere entrato in porta (il gol viene convalidato).
Quella di assegnare all’arbitro il compito di cogliere il preciso istante in cui la camera d’aria di un pallone perde improvvisamente pressione è una delle bizzarrie contenute nel regolamento, come l’esplicita impossibilità, anche volendolo fare, di segnare nella propria porta direttamente da calcio d’angolo. Ma in fondo va bene così, perché del regolamento non importa a nessuno. È già abbastanza difficile trovare qualcuno che voglia giocare in porta, figuriamoci trovare un arbitro e figuriamoci se quest’arbitro – un benevolo zio, un amico infortunato, un passante inadeguato – conoscerà le regole. E poi quelle sono regole d’altro, di uno sport per ex calciatori o brasiliani pigri e freddolosi.
Nei milioni di campi di calcetto di tutto il mondo si gioca un altro sport, uno sport dove governano l’improvvisazione, l’imitazione impossibile del calcio, la discussione perenne e il sogno, indomabile, di essere altrove, su ben altro palcoscenico. Questo sport inesistente è lo sport più praticato al mondo, con le sue regole tramandate a voce e discusse all’inifinito. I suoi tempi sono dettati dalla fatica – “5 minuti di pausa, non ce la facciamo” – dalla pazienza dei gestori, dai ritardi di chi precede e di chi segue – “abbiamo cominciato più tardi”, “finiamo quando suona la campanella” – dalle condizioni meteorologiche, dagli infortuni e dal punteggio.
Chi segna vince. Sta per finire l’ora, facciamo i rigori. Piove troppo, io in porta non ci vado, mi prendo la febbre. Basta, domani devo lavorare. Nelle sere d’inverno piene di nebbia e negli irrespirabili pomeriggi d’estate, a tutte le latitudini e con ogni tipo di illuminazione, fino a quando si spengono le luci, l’ultimo lampione della misericordia o l’ultima luce del giorno. Un mondo cosparso di campetti a dimensioni variabili, molto oltre i limiti del disprezzato e ignorato regolamento (25-42 metri di lunghezza, 16-25 di larghezza), un mondo in cui si continua a giocare senza punti in palio, senza tirare indietro la gamba o senza mai mettere la gamba.
Il chiodo fisso di una punizione che muore nell’angolino alto, dopo aver scavalcato la barriera, e pazienza se è fisicamente impossibile. Non importa, si prova ancora. E nel provarci si invecchia, cercando di superare quella barriera di studenti, colleghi, vecchi amici in pensione preoccupati di proteggere le parti basse e il ponte tra gli incisivi e i premolari. In barriera con terrore, in barriera girati di spalle a ricevere istruzioni da un portiere che urla e si agita perché così si fa e così si deve fare. Prendere la rincorsa contando i passi – tanti, troppi – affondando gli scarpini nell’erba sintetica. Campo di terza generazione, ma quali erano le altre due? Pallone a rimbalzo controllato, un’interferenza nel sogno perché il pallone deve sempre rimbalzare per poter provare il tiro in controtempo, da fuori area. La botta da fuori, il cross, il lancio, il sombrero, il passaggio di spalla. Il pallone sempre in aria, perché è nella traiettoria che il sogno si fa quasi realtà, diventa vicinissimo, tanto vicino che magari lo puoi spizzare di testa, in terzo tempo su un’azione di calcio d’angolo, tra i blocchi improvvisati in area di rigore. Siamo in difficoltà, solo lanci lunghi. Difendiamo e contropiede. Facciamo il rombo. Sfruttiamo le fasce. Portieri attaccanti, portieri volanti, portieri agili e portieri obesi. Montagne di carne, tuta imbottita, guanti strappati, un ghigno cattivo. Gioca semplice, anche dietro, anche dietro che il portiere è lì che aspetta, e non perdona.
Sulla tua, sulla tua. La tua fascia? La tua diagonale? La tua coscienza? Alle tue spalle? Vai avanti, ti copro io, ti copro le spalle, ti copro da un errore che pagheresti con la vergogna eterna. Come viene, come viene. Ma cosa viene, da dove viene, dove va, cosa significa? Nessuno lo sa ma lo sanno tutti. “Come viene” significa “fai quello che stai pensando di fare perché hai visto mille partite in tv come me e anche io lo so, fai come viene, vai d’istinto, del nostro comune istinto”.
Questo sogno distorto è tutto quello che si è potuto costruire sulla propria carenza fisica, sulla mancanza di tempo e sul generale disprezzo per le regole di quell’altro sport, assurdo e insufficiente come il calciobalilla o il Subbuteo. Questo è tutto quello che entra in campo, il premio di consolazione e l’unica fuga dalla televisione, dall’impotenza, dalla dolorosa mancanza di talento.
Una costellazione di campi di calcetto tutti diversi e tutti uguali, dove ci si rende ridicoli con il completino nuovo di zecca di Ibrahimovic su cui campeggia l’ambigua e umiliante scritta “copia conforme all’originale”. Ne condivide la forma, ma non la sostanza, come chi la indossa. Una sistema di panorami periferici, tra stradoni pieni di immondizia o viali immacolati ma oscuri. Una galassia di spogliatoi, esercizi di riscaldamento completamente sbagliati, manie di protagonismo, vendette ripetute, scatti non premiati, stiramenti, rigori sbagliati, cucchiai impresentabili, triangoli mai chiusi, colpi di tacco a profusione.
La milza che fa male, il sogno che sfuma nel viso stravolto del compagno che bestemmia dopo uno stop sbagliato o si sistema un’ingombrante ginocchiera. E il gol da oltre metà campo non vale, lo sanno tutti. Si, ma cosa si fa? Da dove si ricomincia? Di chi è la palla? Chi ha creato tutto questo? Non importa. L’importante è arrivare almeno 10 minuti prima, per organizzare la tattica nello spogliatoio. Prima che ogni traccia di realtà si dissolva oltre una rete metallica, nella nebbia e tra i fantasmi.