La calura della tarda primavera romagnola può essere insostenibile. I tentativi di mitigarne gli effetti sono resi vani dall’afa che sale direttamente dalla terra, una terra grassa e ricca, che i cugini emiliani, più urbani e malmostosi, possono solo invidiare. Tra maggio e giugno i campi di calcio della provincia cesenate diventano così bolle più calde della calura atmosferica, luoghi inospitali in cui matrone corpulente e uomini magri con i baffi, confidando negli anfratti delle tribune, cercano riparo per i loro amplessi.
La fine della primavera del 1992 ripeté apparentemente, per i tifosi della Polisportiva Forza Vigne, il medesimo copione: i ciliegi che fioriscono in anticipo, le prime domeniche al mare, la signora sovrappeso che, con la scusa di seguire il nipote in trasferta, punta a rimorchiare chi è abbastanza disperato da voler ficcare la testa tra le sue tette, il maraglio che insulta l’arbitro e grida al figlio che sta per rinviare “Vai, Wollmer Zico!”. I cicli ininterrotti della vita di provincia, aggiornati soltanto dall’arrivo di ciò che, all’interno di una continua variazione sul tema che riporta a quel caldo, a quel campo e all’omino baffuto ed emaciato della seconda fila, è stato rifiutato dalla città, tengono quel microcosmo lontano dal mondo esterno.
Ma siamo veramente sicuri che quest’orizzonte ciclico non nasconda sottili variazioni interne, piccoli miracoli che accadono inaspettatamente e stabiliscono il punto di origine di un’esplosione (o di un’implosione, dipende dai punti di vista) che frantuma l’asse temporale come l’atmosfera frantuma in mille detriti l’asteroide che entra in contatto con i suoi strati superficiali? Qui, sul campo della Polisportiva Forza Vigne, nell’assolata Romagna, solatìa dolce paese, mentre nel resto d’Italia scoppiano bombe e partono avvisi di garanzia, l’asteroide è un pallone da cui si staccano due tessere di cuoio, una bianca e una nera.
Lo Yin e lo Yang del calcio cesenate sono lì, anche se non sanno di essere lo Yin e lo Yang. Lo Yin, la parte nera e oscura del Tao, è circondato da un gruppo di ragazzi della sua età, quattordici-quindici anni, che cercando di catturare la sua attenzione con frasi del tipo: “Ma te che guanto usi? È vero che ti pigli lo scolo se vai con le spagnole? Ieri mi son fatto di MD. Commando tu ti cali mai?”. Con questo gergo, a metà tra la posa ridicola di chi vuole parlare di cose proibite utilizzando il linguaggio dei genitori e la sensazione che, in fondo, quella provincia non sia il migliore dei mondi possibili, il gruppo dei ragazzi le cui voci sanno di sebo e Topexan si rivolge alla stella della Polisportiva Forza Vigne. Commando, Gianni Comandini, barba irsuta e sguardo fiero, in tasca ha già l’opzione del Cesena. Comandini ascolta tutti con l’aria un po’ sbruffona di chi non appartiene più a quelle piccolezze e sa di poter puntare in alto. Squadra tutti dall’alto in basso perché pensa che, in fondo, di queste discussioni può fare a meno. Se volesse, potrebbe fare a meno anche del calcio. Potrebbe prendere la tavola da surf, regalo dello zio di un’ex-fidanzata e scappare in Portogallo o, male che vada, in Liguria. Potrebbe alzarsi tutte le mattine alle 11, mettere la muta se è inverno, attaccarsi alle cuffie del walkman e ascoltare i Beach Boys nei giorni di sole o gli Happy Mondays nei giorni nuvolosi e stare lì, a guardare le onde che si rifrangono l’una sull’altra.
Perché in fondo l’ha capito che è tutto un baraccone: per un attaccante come lui, potente senza essere un mostro di tecnica, basta una contrattura malcurata, una frattura che lo tiene fermo qualche mese e la sua carriera è finita. Gianni sa perfettamente che un giorno, poco prima dei trenta, un movimento della gamba, uno di quelli ripetuti allo sfinimento, terminerà con una sensazione strana, di formicolio e paralisi. Oppure che la caviglia non reggerà all’ennesima entrata dura del centrale difensivo. E in quel momento, davanti quel gruppo di ragazzini, decide che non gli importa, che non gli deve importare. Giocherà a calcio fino a quando potrà: poi sarà festa grande. Il suo volto ombroso nasconde la gioia della noncuranza, l’ironia che salva la vita. Perché a Comandini è chiaro già da ora che il suo nome sarà pronunciato dai tifosi di una grande squadra per un mese o due, forse perché riuscirà a segnare una doppietta durante un derby. Poi, inesorabilmente, il suo ricordo si affievolirà, fino a rimanere uno dei tanti nomi delle vecchie versioni di Championship Manager, quelle i cui driver rimarranno sepolti in CD utilizzati poi come scacciacornacchie sugli alberi da frutto.
Comandini: lo Yin, la virgola nera con il punto bianco. Lo Yang, invece, è vicino a quella combriccola di ragazzini che sta cercando di impressionare la stella del momento. Lo Yang: virgola bianca con il punto nero. È seduto lì, a guardare i grandi vantarsi di cose mai dette e di azioni mai compiute. Magro e timido, con la veste bianca da chierichetto che contrasta con la carnagione olivastra del volto, il ragazzino scruta il suo idolo, quello che sta per andare a giocare nel Cesena. Memore della messa delle dieci, in cui ha servito con devozione Don Felice, scambia Comandini, illuminato dal sole pomeridiano, per un profeta. Si fionda a testa bassa verso di lui e, senza guardarlo in faccia, esclama: “Abbà padre, ascoltami: un giorno anch’io giocherò in serie A e tutti sapranno il mio nome, Marco Bernacci”. Il ragazzino, nove anni a dicembre, pensa di essere stato coraggioso. Alza il capo credendo di aver finalmente conquistato Gianni. Ma Comandini, con tono sprezzante e paterno al contempo, come se non volesse incoraggiare il culto della propria persona, lo guarda intensamente negli occhi e dice: “Va’ via, patacca. E non provarci più”.
Il ragazzino, incapace di reagire al rimbrotto, si rifugia negli spogliatoi. Si guarda allo specchio: la veste bianca e il volto già abbronzato richiamano il bianco e il nero dello Yang, ma lui non sa che cazzo sia, lo Yang. A differenza di Gianni, non riesce ancora a orientarsi in quel marasma: si sente solo, tradito, vittima di un complotto del sistema, agnello sacrificale con la tunica da chierichetto. Il bersaglio perfetto per il bullismo di provincia: individuare il più debole, soffocarlo nel suo sangue e ricordargli che la sua normalità è questa. Si spoglia e, osservandosi di nuovo allo specchio, non riesce a non notare la propria complessione smilza, inadatta al calcio moderno. Lì per lì si sente un airone, vuole sentirsi airone, anche se già avverte quel chiacchiericcio indistinto, quel darsi di gomito dei tifosi del Bologna che, poco generosamente, quindici anni dopo gli daranno un “apodo” odioso, “lo psicostruzzo di Cesena”.
Questo incontro, forse mai avvenuto, segnato dall’esplosione di un’unità in due tessere simboliche, è il punto d’origine di percorsi completamente diversi. Gianni e Marco salgono alle luci della ribalta in momenti diversi, e per ragioni diverse.
La carriera di Comandini è fulminea: in tre anni passa dalla serie B al Milan, i cui dirigenti pagano il suo cartellino venti miliardi. Il campionato della svolta è la stagione 1998-1999. L’attacco del Cesena è formato da cinque giocatori: tre giovani (oltre a Comandini, Mattia Graffiedi e, da gennaio del 1999, Emiliano Bonazzoli, nomi che, a Championship Manager, garantivano il salto di qualità) e due grandi vecchi, Alessandro Bianchi, ex interista, e Massimo Agostini, il Condor, con un passato alla Roma, al Milan, al Parma e al Napoli. Le regole del gioco sono chiare: Bianchi e Agostini sono tornati in Romagna a fine carriera e il Cesena chiede loro di fare da chioccia (o da condor) ai tre virgulti. Gli anziani di Cesenatico raccontano ancora oggi di quando Agostini, Miyagi della Riviera, costringeva, con l’aiuto di Bianchi, Graffiedi e Comandini (e, in seguito, anche Bonazzoli) a estenuanti corse sulla spiaggia e a continue ripetizione della “Mossa della Gru” sulle bitte del porto canale. Una leggenda mai appannata, che rende ben comprensibile l’esplosione di quei tre. Nella stagione successiva, Comandini, passato al Vicenza, sarà il miglior marcatore della prima squadra del torneo e uno dei più prolifici attaccanti in assoluto; Graffiedi verrà opzionato dal Milan; Bonazzoli contribuirà in maniera decisiva alla promozione in serie A del Brescia, segnando dieci reti.
Ma l’apex della carriera di Comandini deve ancora arrivare. Galliani e Braida, incuriositi dalla forza esplosiva del suo stile, lo comprano dal Vicenza. Comincia così una stagione strana: Gianni gioca poco e brilla solo nel derby. I due gol segnati nei primi venti minuti di quell’Inter-Milan (stagione 2000-2001) rappresentano infatti il suo unico capolavoro. Entrambi innescati da Serginho (il primo da un suo passaggio corto, il secondo da un cross), costituiscono il miglior esempio dello stile di gioco di Comandini: centravanti d’area, capace di coordinarsi all’ultimo momento e a scucchiaiare il pallone in porta. Acrobata potente, in grado di raccogliere i chirurgici traversoni di Serginho e di deviarne con violenza la traiettoria con un colpo di testa.
Per il resto della stagione Comandini rimane nel limbo che divide la panchina dal campo. Alla fine del campionato l’Atalanta offre trenta miliardi per il suo cartellino: Galliani coglie due piccioni con una fava, vendendo al massimo rialzo un giocatore che fatica ad ambientarsi. Inizia la fase calante della sua carriera: chiusa la parentesi atalantina, Comandini va al Genoa, torna a Bergamo e, alla fine, accetta l’offerta della Ternana. Qui, dopo l’ennesimo infortunio, consapevole che quella doppietta all’Inter è un punto irripetibile del suo palmares personale, decide che ne ha abbastanza. Gli viene in mente quella volta in cui, da adolescente, ha pensato che il mondo del calcio è tutto un baraccone e che non ne vale la pena. Prende l’auto e, arrivato a Cesena, nella vecchia casa dei suoi genitori, trova due amuleti, i simboli del passaggio alla nuova vita: la tavola da surf e un vecchio Invicta da viaggio.
La carriera di Bernacci si svolge lungo un percorso speculare rispetto a quella di Comandini. Non ha picchi, come quello della doppietta nel derby di Milano. Anzi, il suo apice è rappresentato da un interstizio, da una promessa mancata: il passaggio al Bologna nel 2008. Lungi dall’essere il coronamento di un lungo cammino, l’arrivo di Marco nel capoluogo felsineo appare estremamente problematico.
La strada che lo conduce sotto le due torri è lunga. Prende avvio all’inizio degli anni ‘00: dopo le giovanili, Bernacci rimane al Cesena, la sua squadra del cuore, collezionando le prime presenze nei campionati professionistici ed esordendo in serie B a ventuno anni. Poi le prime richieste, la necessità, per il Cesena, di rimpinguare le casse e la cessione al Mantova. Bernacci, nonostante la nostalgia di casa, tiene duro e dimostra che quel suo fisico sgraziato non pregiudica la sua efficacia sotto porta. Eccolo, finalmente, l’Airone del Savio. Eccolo che vola insieme agli aironi del Po a Mantova e, nella stagione successiva, ai picchi marchigiani di Ascoli Piceno.
La stagione con i bianconeri è decisamente fortunata: sedici gol e diverse squadre, tra cui il Bologna, cominciano a interessarsi a lui. Bernacci sembra determinato, anche se il cuore è rimasto lì, tra il Santerno e l’Adriatico. Nel novembre del 2007, commentando su Corriere Romagna il passaggio di Confalone (ex-pupillo del vivaio cesenate) dallo Spezia al Bologna, dichiara: “Confalone al Bologna? Non penso di poter dare consigli a uno come lui. Mi limito solo a dire che se capitasse a me, come poi è già accaduto con il Rimini, che qualcuno mi proponesse di andare in una squadra rivale del Cesena, io rifiuterei. Io sono tifoso del Cesena ed il mio sogno è di andare in serie A con questa squadra”.
L’amore viscerale per la Romagna, quando la Romagna è la propria terra, si traduce spesso in forme di saudade simili a quelle che colpiscono i giocatori brasiliani. Bernacci segna ed è l’idolo della curva del Del Duca. Però gli manca casa: ogni sera, dal proprio terrazzo, guarda verso nord, sperando che arrivi una chiamata dal Cesena. Poi, un giorno, il telefono squilla. Dall’altro capo della linea, tuttavia, non ci sono i dirigenti romagnoli, ma l’allenatore del Bologna, il romagnolo Daniele Arrigoni. Bernacci esita: accettare la proposta significa rimangiarsi quella dichiarazione contro Confalone, quell’impegno preso di fronte al pubblico del Manuzzi. Andare a Bologna vuol dire trasformarsi nel Giuda di turno, tradire se stessi per giocare in Serie A.
Bernacci compie la scelta che gli sembra più logica. E poi Bologna è anche vicina a casa. Ogni volta che sentirà la mancanza di Cesena, potrà tornare. Forse arriva anche a credere in quello che sta facendo. Ora è un professionista che gioca in una delle più importanti federazioni europee. Il cuore non deve immischiarsi. Il procuratore ha detto che è un buon affare e Arrigoni crede in lui. Che cosa può chiedere di più? Chi gli potrà mai rinfacciare quella dichiarazione? Nessuno.
O forse tutti. Ben presto, infatti, i tifosi del Bologna cominciano a mugugnare per i passaggi sbagliati e per la sua inconsistenza sottoporta. Qualcuno lo insulta, ricordandogli che un cesenate a Bologna non è gradito. Soprattutto un cesenate che, prima di arrivare, ha insultato la maglia rossoblu. Quando salta la panchina di Arrigoni, sostituito da Mihajlovic, la condizione di Marco si fa più critica. Il tecnico serbo ci prova, dice alla neopresidente Francesca Menarini: “Datemi frusta e io recupero Bernaccio”, ma i risultati sono alterni. Il 13 dicembre 2008 nella sfida in casa col Torino, che ha già il sapore dello scontro salvezza, Bernacci svolge un ruolo fondamentale nel consolidare il risultato e nel permettere al Bologna di battere 5 a 2 i granata. Il suo gol è tutto di carattere: va a pressare Sereni, il portiere del Torino, che perde palla e lo atterra. L’arbitro fischia il rigore e Marco Di Vaio gli lascia la palla. Pochi minuti dopo, su assist di Di Vaio, Bernacci si invola verso la porta. Viene atterrato in area e Di Vaio realizza il gol dagli undici metri. Questi, tuttavia, sono gli unici momenti di vivacità dell’attaccante cesenate. Quando Mihajlovic viene sostituito da Papadopulo, il campionato di Marco finisce: l’anno prima, durante Ascoli-Lecce, aveva litigato pesantemente con l’allenatore toscano, che, arrivato a Bologna, lo esclude definitivamente dal novero degli attaccanti su cui puntare.
L’anno successivo Bernacci torna ad Ascoli, dove ricomincia a segnare. Torna la saudade. Nel 2010 viene acquistato dal Torino, ma non si trova a suo agio: si autosospende e chiede la riduzione dell’ingaggio. La depressione, mai ammessa, gli impedisce di giocare. Pensa di tornare definitivamente in Romagna e di aprire un bagno un riviera. Ha già in mente il progetto: bar, ombrelloni e campo da foot-volley. La passione per il pallone, però, ogni tanto si ripresenta e lo spinge a breve apparizioni nel Modena e nel Livorno, fino alla militanza nel Forlì e nel Bellaria Igea Marina, squadra in cui gioca tuttora. Ma anche in questo caso il suo percorso è speculare rispetto a quello di Comandini. Al taglio netto e senza rimpianti con il mondo del calcio, Bernacci preferisce la lenta consunzione, il continuo ritorno sui propri passi e la scelta della soluzione meno dolorosa a livello emotivo. La nostalgia di Cesena lo sospinge continuamente al ritorno in Romagna e al rimorso per una carriera che sarebbe potuta essere diversa.
Bernacci e Comandini, due lati della stessa medaglia, carattere implosivo e introverso il primo, carattere esplosivo ed estroverso il secondo. Due tessere di cuoio, staccate dalla collisione di un asteroide a forma di palla contro l’atmosfera terrestre, la cui ricomposizione ridarà il senso di unità delle cose. Perché sicuramente i loro percorsi si incroceranno di nuovo. O forse si sono già incrociati in qualche universo parallelo. Magari sulla spiaggia di Cesenatico, davanti al Bagno Bernacci. Marco è lì, in canotta, a godersi il tramonto e a chiudere gli ombrelloni. Davanti a lui, Gianni, dopo aver tentato per l’ennesima volta di fare surf nell’Adriatico, siede sul bagnasciuga. Marco gli va vicino e, dopo un cenno di intesa, comincia a raccontare di quando, nella primavera del 1992, Gianni gli diede del patacca. Alla fine sospira e dice: “Ma diobono, provi a fare surf qui da anni. Non hai ancora capito che non ci sono onde? Mi sa che dei due il patacca sei tu”.