Gli eroi facevano acrobazie incredibili. Palleggiavano con destrezza, stoppavano in aria, calciavano con una coordinazione stupefacente. Queste acrobazie gli eroi le facevano in cortili di forma irregolare, con un pallone rosso arancione di gomma dura. Quando gli stessi eroi si trovavano su un campo di terra battuta dalle dimensioni rettangolari, con le scarpette ai piedi e un pallone di cuoio vero da calciare, non erano più loro. Inciampavano sul pallone, più niente andava come doveva andare. La differenza era nel tipo di pallone, era un problema di leggerezza, di traiettoria. Quegli eroi erano erano campioni da Super Santos.
Di Super Santos però non ce n’era uno. Quello fabbricato dalla Mondo, quello ufficiale, si trovava nei negozi di giocattoli in città. Al mare, invece, la gente si doveva accontentare di un’imitazione. Che non si trattasse dell’originale si intuiva dalla stampa del marchio, sbiadita, sfocata, dalle cuciture imprecise, dalle imperfezioni vistose. O almeno questo era quello che si deduceva all’epoca, perché non ci sono conferme delle contraffazioni da parte di nessuno, anche perché quando l’imitazione non riguarda borsette di lusso e vestiti di marchi celebri passa sotto silenzio, e in fondo nessuno potrebbe stimare in modo preciso quanti Super Santos si vendessero all’epoca in prossimità delle spiagge italiane. Chiunque ci provasse, probabilmente sbaglierebbe per difetto. A proposito di tentativi, qualche anno fa un giornalista ha dedicato al Super Santos un brutto racconto, senza però offrire alcuna rivelazione sul caso dei Super Santos taroccati.
Il Super Santos era sigillato dentro retine di plastica colorate. Per sceglierlo, un adolescente aveva bisogno di tempo, doveva tastarlo, osservarlo da vicino evitando quelli con la forma di una sfera allungata, in linguaggio tecnico ovalizzati. E poi c’era un segreto: il Super Santos migliorava invecchiando. Si perfezionava con l’uso, fin quando non si bucava. Per bucarlo non ci voleva un chiodo appuntito, era sufficiente un ramo acuminato, un coccio di bottiglia, una pietra tagliente. Nel malaugurato caso, c’era solo una soluzione, una sorta di rattoppo. Si passava un coltello riscaldato sul pallone e poi si metteva questa striscia di plastica sul punto in cui c’era la bucatura, ma era una cosa complicata, da fare al volo. In alcuni casi la rianimazione non andava a buon fine e l’unica soluzione era comprarne un altro. Se era tardi, qualcuno rimediava riesumando un Super Tele.
Il Super Tele era leggero, leggerissimo, di materiale plastico in vari colori e dallo spessore impalpabile. Era un pallone da femminucce. Solitamente venduto dai tabaccai e dai negozi di giocattoli di second’ordine, il suo nome sembrava quasi prevedere quello che sarebbe avvenuto in seguito: la televisione che ingurgita il calcio. Il Super Tele andava bene per farlo volteggiare in aria in una parodia di pallavolo o per usarlo in una strana pallanuoto da mare, ma per giocarci a pallone bisognava essere davvero disperati.
La Mondo realizzava anche altri palloni: il più famoso era il Tango (prodotto su licenza della Adidas) che si gloriava di essere la versione economica del pallone ufficiale del mondiale di Argentina ’78. Se il Super Santos era un pallone allo stesso tempo proletario e borghese, interclassista per eccellenza, il Tango era una chimera, un desiderio poche volte soddisfatto, un oggetto snob. Era di gomma ma fingeva di essere di cuoio, era duro, anche troppo, un pallone raffinato. Costava tre volte un Super Santos e non era stato progettato per essere schiacciato da una 128 qualsiasi. Le partite giocate con il Super Santos erano più spettacolari perché più imprevedibili. Il pallone prendeva effetti strabilianti, e poi andava bene su qualsiasi superficie, anche se dava il suo meglio sull’asfalto sbrecciato e sulla spiaggia al tramonto.
Il Super Santos deve il suo nome, anche se perfino su questo mancano risposte certe, al grande Santos di Pelè, calciatore che all’epoca i bambini avevano visto giocare solo in Fuga per la Vittoria. Quelli erano anni in cui il Brasile era ancora il centro del calcio mondiale, e tutti i campioni più forti venivano da lì: Zico, Falcao, Cerezo, Junior, Socrates. Tutti sognavano di avere un brasiliano nella squadra del cuore. Bastava pronunciarne il nome per immaginarsi sfracelli, anche se a volte dovevi accontentarti di un Pedrinho o un Luvanor qualsiasi. Le partite del calcio brasiliano, con l’erba altissima che rendeva lenti i passaggi, le trasmettevano certe tv locali, e la gente le guardava con ammirazione. Altro che Premier League e Liga.
Allora il calcio era lentissimo e affascinante, c’erano lunghissimi passaggi al portiere che accarezzava il pallone fra le mani per un tempo interminabile se la sua squadra era in vantaggio e poi la rilanciava quasi controvoglia. Un pallone pigro perfettamente sintonizzato con il caldo estivo in cui si giocavano i Mondiali, ritmi ancora immuni dal pressing a tutto campo che ora ti ritrovi anche a luglio inoltrato.
Oggi il calcio è cambiato e di Super Santos, Super Tele e delle loro innumerevoli contraffazioni se ne vedono davvero poche. I bambini non giocano nei cortili e quando giocano vogliono qualcosa che ricordi il calcio che si vede in tv: palloni bianconeri, di simil-cuoio, fin dalla più tenera età, oppure palloni con i colori delle squadre più famose, che si possono permettere un merchandise su larga scala. Nell’epoca d’oro del Super Santos di palloni così belli in strada non se ne vedevano mai. Quelli erano palloni da calcio a 11, da settore giovanile, da aspiranti professionisti.
Sul Super Santos la gente dipingeva cose, usava pennarelli neri per delineare strani geroglifici, scrivere frasi misteriose, mandare messaggi cifrati. Sullo sfondo rosso arancione si stagliavano dichiarazioni d’amore e di odio, passioni politiche e gusti musicali, o semplicemente si scriveva il proprio nome per non farselo rubare quando lo portava in classe per l’ora di educazione fisica. Ma spesso il Super Santos era una proprietà collettiva, acquistato con ammassi di monetine faticosamente raccolte. Era di un gruppo più che del singolo e tutti avevano il diritto di marchiarlo con un proprio segno distintivo. Trovare un Super Santos immacolato era cosa rara, ma non era difficile vederne uno sgonfio e ormai inservibile, esausto per sempre. E non c’era nulla di più triste di un Super Santos abbandonato ai margini di una strada, bucato, con le scritte raggrinzite, invecchiato senza più la speranza di essere preso a calci.