Nell’andatura delle lettere della lista della spesa è possibile riconoscere una calligrafia femminile: un chilo di pasta, carne bianca, tre confezioni di scottex, frutta, verdura e un pacco di assorbenti. Giancarlo Marocchi, in piedi davanti al frigo aperto, si accarezza con la mano sinistra la canotta, sistemandosi nervosamente l’elastico delle mutande. Così, a occhi chiusi, ripensa per l’ennesima volta che questi piccoli momenti di tranquillità, dal giorno del suo passaggio alla Juventus, sono diventati gli unici istanti in cui riesce ad avvertire le pulsazioni del proprio ritmo interiore. Qui e ora, lontano dalla necessità di essere appropriato ed elegante in ogni occasione. Perché ora lui è qualcuno: nell’ultima stagione, dal settembre del 1991, gli è stato riservato un trattamento mediatico da presidente del consiglio. E quel ragazzino, che partiva ogni giorno da Imola per andare a Bologna con un’immensa voglia di dimostrare a sé e agli altri il proprio valore, è diventato uno dei calciatori più affascinanti della serie A. Molte volte aveva visto quello sguardo negli occhi di sua moglie, lo sguardo di chi ammira il proprio uomo parlare a Dribbling e poi corre subito a chiamare zia Elvira, e molte volte quello sguardo gli aveva fatto sentire tutto il potere del proprio fascino.
La frescura artificiale del frigorifero gli fa provare un senso di pienezza percettiva che, per qualche istante, rallenta il gocciolio della rabbia dovuta alle tante ingiustizie subite. Dalle scarse attenzioni di Vicini al palese astio di Sacchi – innamorato ogni giorno di più del suo pupillo Ancelotti – ogni singolo punto della lista che gli ha fatto compilare lo psicologo diviene sintomo evidente di un solo fatto: l’Italia non apprezza a sufficienza le proprie risorse e tende a premiare la mediocrità. E secondo lui la mediocrità furba dell’italiano medio è incarnata da Ancelotti e dal suo sopracciglio perennemente alzato. Quante volte avrà convinto gli altri grazie a questo riflesso incondizionato, a questa spia, a questa finestra spalancata sulla sua boria?
Illuminato dal piccolo neon del frigorifero, Marocchi riapre gli occhi e abbraccia la moglie Barbara e la figlia Federica che gli corrono incontro per salutarlo: a breve partiranno per le vacanze in Riviera di Levante e Giancarlo rimarrà solo a vedere Danimarca-Germania, la finale degli Europei del 1992. Rimanere a casa o stare in panchina sono esattamente la stessa cosa: guardi il mondo dai margini. Insomma ci sei, ma non sei completamente dentro alle cose. Quando te ne accorgi, l’unica cosa che puoi fare è sviluppare tecniche che facilitino il tuo orientamento. Giancarlo ne ha elaborata una perfetta: durante le partite della nazionale ha cominciato a commentare ad alta voce le azioni, come se dal suo salotto potesse raggiungere gli allenatori o i cronisti televisivi. Un modo per prendersi cura di sé e lenire il dolore dell’esclusione. Un modo per dimostrare a se stesso che Ancelotti non è l’unico ad avere già la testa da allenatore.
La porta si chiude. Giancarlo può finalmente stendersi sul divano di casa, accendere la televisione e ascoltare la voce di Bruno Pizzul che parla da Göteborg. Giancarlo vorrebbe per un attimo dirgli che, in realtà, Göteborg si dovrebbe pronunciare Götebari, ma la propria fine sensibilità – Bruno, come tutti sanno, è un po’ permaloso – l’ha portato subito a concludere che non è il caso. Pensando a questo, Giancarlo chiude per un attimo gli occhi e quando li riapre si trova nella cabina assegnata alla RAI dagli steward dell’Ullevi Stadion. Cuffie nelle orecchie, guarda Pizzul che introduce le formazioni, arricciando in maniera disgustosa la mandibola sulla mascella ogni volta che pronuncia il nome Schmeichel. Gli piace molto di più quando forza il proprio diaframma per pronunciare in tono ascendente Bodo Illgner.
Bodo, che nome buffo. Gli ricorda il soprannome che lui diede a Roberto, il chierichetto albino che mollava ceffoni ogni volta che si prendeva in giro sua madre. Gli viene in mente un paradosso: alla fine, nei suoi ricordi, l’amico Bodo somigliava molto di più a Schmeichel che a Illgner. “Com’è strana la vita”, pensa Giancarlo mentre le ombre lunghe del tramonto scandinavo fanno affiorare dal mare placido della sua coscienza altri ricordi, altre avventure: i giorni di fine primavera nella campagna imolese, le corse tra i filari di rusticani e di albicocchi, le ragazze dal culo grosso, i jeans tagliati appena sopra la cosa e le gambe un po’ pelose gonfie di punture di zanzara, le ciliegie utilizzate come pendagli per le orecchie. In una parola, felicità. Tutto era perfetto, non come ora all’Ullevi Stadion della sua anima, dove la voce di Pizzul, l’odore della pasta aglio, olio e peperoncino che sta bruciando in padella, il caldo, la sensazione di essere inutile e il profumo dei gelsomini che sale dal piano terra si mescolano, ricordando a Giancarlo il peso della vita quotidiana.
C’è sempre qualcosa che prosegue, che ci sopravvive. Escluso lui dalla nazionale, altri centrocampisti sono stati convocati: Albertini, Berti, Eranio, i nuovi pupilli di Sacchi stanno godendo i frutti dell’iniquità del mondo. Ma anche il loro momento arriverà. Anche se adesso non lo sanno, sono anche loro fantasmi che verranno cacciati da altri fantasmi, ologrammi che si trasformeranno in nomi su un tabellino. Pensando a questo, Marocchi emette un piccolo sibilo, come se un urlo profondo e notturno fosse stato soffocato da un cuscino. Mentre si alza per spegnere il fuoco sotto la padella, Giancarlo cerca di distrarsi recitando le formazioni danesi e tedesche in uno scioglilingua degno di un banditore americano.
Schmeichel, Sivabaek, Olsen, Piechnik, Nielsen, Christofte, Jensen, Vilfort, Larsen, Laudrup, Povlesen… Illgner, Kohler, Buchwald, Emmer, Reuter, Brehme, Sammer, Effenberg, Hässler, Riedle, Klinsmann…
Nomi che riempiono la bocca e l’anima. Giancarlo fa notare a se stesso (e a tutti coloro che immagina all’ascolto) che l’Europeo del 1992 è la prima competizione ufficiale in cui la Germania si presenta unita e l’ex Urss come Comunità di Stati Indipendenti. La storia è passata sopra le teste di tutti, e nel giro di due anni ha cambiato la geografia calcistica. Giancarlo si sente per pochi istanti al centro di un racconto più grande di lui, capace di trasformare il televisore e gli spaghetti che sta avvolgendo attorno alla forchetta in un complemento necessario ai grandi stravolgimenti della Storia. Questa sensazione è amplificata dalle note degli inni danese e tedesco. Nel tempo Giancarlo ha elaborato questa teoria: più i giocatori sembrano seri durante l’esecuzione degli inni, più le probabilità di successo aumentano. Lo dimostra Germania-Argentina del 1990. Maradona si scalmanava come un bambino a cui avessero sputato sul gelato, e che fine ha fatto la Selección?
Per questo Europeo, come sta dicendo ora con la bocca piena di spaghetti, il pronostico è secco: vincerà la Germania. E poi basta vedere come i danesi stanno affrontando i primi minuti di gioco. “Poche idee, molti retropassaggi al portiere, così non possono andare molto lontano”, dice a voce alta, lasciando il piatto sul tavolino davanti alla televisione e portandosi le mani alle orecchie come se fossero cuffie, mentre un’inquadratura mostra Beckenbauer e Pelé illuminati da un taglio di luce crepuscolare. Anche lui, un giorno, sarà lì con loro, a scherzare sulle variopinte divise di Schmeichel. Forse racconterà loro dell’amico Bodo che, nonostante il nome, era albino e assomigliava al portiere danese. E Franz riderà, facendo qualche battuta scontata sugli italiani.
Nella prima azione da gol, Marocchi riesce a leggere la netta superiorità della selezione tedesca e la mano sapiente di Berti Vogts: Sammer, l’erede di Matthäus, pesca Reuter con un passaggio filtrante; il terzino riesce a penetrare nella difesa danese, ma non riesce a battere Schmeichel. “Prove di gol”, sogghigna Giancarlo, pregustando il momento in cui Riedle o Klinsmann sfonderanno il muro di maglie rosse. Con lo sguardo annoiato di chi sa prevedere il futuro, osserva il televisore e si fa cullare dalla voce catramata di Pizzul fino al diciottesimo minuto, quando Kohler e Brehme pasticciano sull’out di sinistra, Larsen ruba il pallone e lo passa a Jensen, che, dal vertice dell’area di rigore, sorprende Illgner.
“Sì Bruno, si tratta della grande legge del calcio e della vita: sbagli un gol e subito dopo qualcuno ti punisce. Quante volte ci è capitato?”, dice mentre immagina Pizzul e il suo sguardo compassionevole. “Ma è ancora presto, la Germania ha tutto il tempo di agguantare il pareggio e chiudere la partita. Devono però cominciare a sfruttare la velocità di Riedle e i movimenti a incrociare di Klinsmann”. Che equivale a dire, in maniera elegante (e a Giancarlo l’eleganza piace molto), che gli attaccanti tedeschi devono cominciare a muovere di più il culo. Ma in pochi sembrano ascoltare i suoi consigli. La Germania, a parte qualche fiammata di Klinsmann, non riesce a cambiare l’inerzia della partita, e il primo tempo finisce senza grandi patimenti per la difesa danese.
Marocchi spegne il televisore e guarda il proprio riflesso sullo schermo nero. No, questa partita sarà vinta dalla Danimarca. Ormai lo sente: nonostante avesse detto al parrucchiere che non c’era partita, nonostante avesse scommesso con Luppi, nonostante lo avesse assicurato al proprio psicologo, nelle piccole chiacchiere che precedono o seguono una seduta d’analisi. E quella falsa sicurezza che aveva ostentato con loro si tramuta pian piano nel vortice della depressione. Marocchi si avvicina allo schermo e osserva il riflesso del proprio volto. “Vedi, Giancarlo, il tuo problema è che sei fondamentalmente una persona triste. Non hai problemi, sei solo circondato dal piattume che pensi di meritarti. Ancelotti, per esempio, non vive così. Magari è meno brillante, ma non è triste come te. Per questo non sarai mai né un allenatore né un bravo commentatore”, conclude mestamente Marocchi, come se queste cose fossero realmente importanti. Si allontana dalla tv, prende una delle ultime cassette comprate dalla moglie Barbara e la inserisce nello stereo. Il ritornello di una canzone sembra dirgli tutto ciò che deve sapere in quel momento: “Quando toccherai / il fondo con le dita / a un tratto sentirai / la forza della vita / che ti trascinerà con sé / amore non lo sai / vedrai una via d’uscita c’è”.