Non è ancora l’alba, ma l’avvocato comincia a vestirsi al buio. Mette un piede fuori dalla stanza e respira a fondo, godendosi l’odore dell’erba bagnata che sale dagli scarpini ancora sporchi dall’allenamento del giorno prima. Guarda il cielo e poi il vialetto di casa, ricorda dove ha parcheggiato la Ford Fiesta e torna a respirare a fondo. “Forse oggi al campo esco prima, forse faccio un salto in facoltà”, dice tra sé e sé. Nell’appartamento ci sono solo il caffè e le buste di risotto preconfezionato. Deve dare una svolta alla sua vita, trovare una via d’uscita, qualsiasi cosa, capire. Lippi ha messo in squadra un po’ di ragazzi. Cannavaro sta facendo bene, aveva fatto bene anche con Ottavio Bianchi, ma a lui sembra interessare solo il pallone e tempo per altri pensieri non ne ha. Al padre e alla madre dice sempre che non riesce a tornare a Formia. Un giorno il problema sono i treni, l’altro un appello spostato all’improvviso, ma la verità è che non ha tempo. Il campo di Soccavo gli prende tutto quello che ha, e il poco che resta lo butta sui libri. Diritto romano ha una parte speciale che gli ha fatto odiare le radici della giurisprudenza, così non può andare avanti.
Ormai all’università sono rimasti in pochi. La maggior parte ha deciso di lasciare e di andare a giocarsi quello che restava delle gambe in qualche squadra di provincia. Il signor Pecchia vuole il figlio avvocato, a lui il pallone non interessa. E poi Fabio non è poi tanto in disaccordo col padre. “La campagna muore”, pensa infilandosi nel traffico di Pianura, dando uno sguardo all’immondizia accatastata ai lati della salita del Frullone. “Anzi, è già morta”. Ricorda quando è arrivato a Napoli alla Federico II, e guardandosi allo specchio gli sembra di vedere ancora un adolescente. Le scale della facoltà sul Rettifilo e le corse in treno per tornare ad Avellino a giocare in serie B. “Quest’anno è diverso”, gli aveva detto Ciro Ferrara, “dobbiamo mettervi dentro, stiamo con le scolle in fronte”. Il pomeriggio aveva il tempo per cenare in via dell’Epomeo, un panino e una coca cola in lattina. I primi a chiamarlo avvocato erano stati proprio quelli del minimarket. Quando arrivava con la tuta del Napoli gli sorridevano perché sapevano chi era, ma quando gli vedevano i libri stretti sotto al braccio sinistro gli chiedevano solo “perché?”. “Perché voglio fare l’avvocato”, aveva risposto una volta, “perché mica lo so Lippi che intenzioni ha”. Napoli è una città fatta di voci, uno sciame impazzito di notizie che vola sopra le teste della gente e arriva dove meno te l’aspetti. E così, il giorno dopo, al centro Vicinale Paradiso, il parcheggiatore gli aveva urlato “signor avvocato favorisca le chiavi”. Si era chiesto: “Sono un avvocato senza esserlo ancora? O sono un calciatore che non passerà mai l’esame di diritto romano?”
La prima volta che ha visto il suo nome nella lista dei convocati è trasalito. Aveva chiamato a casa per dirlo al padre, ma lui gli aveva subito chiesto da quanto tempo non metteva piede in facoltà. Il signor Pecchia era un tipo nostalgico. Fabio ricordava che da piccolo il padre non rispondeva mai alle domande della gente perché trovava sempre una storia da raccontare. Quel giorno al telefono lui gli disse quello che aveva sentito il giorno prima al minimarket di Soccavo. “Sai, papà”, aveva detto trattenendo il respiro, “mi hanno detto che un uomo molto nostalgico prima di venire a Napoli a cercare lavoro nei cantieri, si era infilato in tasca due semi degli alberi della sua campagna. Per giorni e giorni quest’uomo aveva dormito per strada e mangiato pane secco. Al paese non aveva molto, ma a Napoli non aveva niente, così aveva deciso di tornarsene a casa. Ma quando stava per avviarsi verso la stazione s’era stretto le mani in tasca per il freddo e aveva trovato i due semi. Senza pensarci troppo, li aveva lanciati in un terreno abbandonato in mezzo a delle baracche. Ecco papà, il giorno dopo quei semi erano diventati una piantagione e quell’uomo aveva cominciato a vendere mele”. Dall’altro capo del telefono l’uomo era rimasto ad ascoltare senza interrompere e poi, senza aspettare che il figlio gli parlasse degli esami di giurisprudenza o del Napoli, aveva detto: “La nostalgia gioca brutti scherzi se non sai come gestirla. Può diventare più forte di un desiderio”.
Il 28 agosto del 1993, dopo una lunga interurbana, Fabio Pecchia scende in campo al 69esimo contro la Sampdoria di Mancini, Platt e Gullit. Prende il posto di Gambaro, si piazza sulla destra, ma non per sostituire il terzino. Lippi gli dice di aggredire la profondità, la Samp è già sul due a zero. Quando entra in campo corre subito verso il portatore di palla, ma lascia un buco in cui Attilio Lombardo si inserisce a velocità inumana. Lippi lo guarda come si guardano i figli disobbedienti. Non gli dice nulla, lo guarda e basta. Pecchia, l’avvocato, sa cosa vuole il mister e allora si rimette giù sui libri e rincorre Lombardo. Gli sta attaccato come se volesse sfidarlo, si lancia in scivolata e gli porta via il pallone. Con la palla tra i piedi crede di poter rilanciare l’azione, magari correre da solo fino alla porta. Passo dopo passo s’immagina il campo che gli scorre sotto i piedi come le scale mobili della metro di piazza Cavour. Si tocca le tasche e anche lui trova dei semi: sono gli stessi che si è portato da Formia quando è andato via. Sembra quasi che in campo non ci sia nessuno, nessuno tranne Pagliuca che lo aspetta e nel frattempo gli racconta una storia. “Fabio”, dice Pagliuca appoggiato al palo della porta del San Paolo, “non credere ai sogni, non credere di essere davvero in grado di ascoltare quello che sto per dirti in mezzo a cinquantamila più ventidue persone.”
“Il calcio per te non è un sogno, lascia stare quei semi, perché quelli che hai in tasca non germoglieranno domani. Tu non sei così stupido da crederci, Fabio”.
“Fabio, Fabio”, gli urlava Lippi dalla panchina, “accidenti a te, falla girare quella palla, non portarla a giro per il campo”.
Oggi Fabio Pecchia non pensa più a come sarebbe andata se avesse scelto di essere solo un avvocato. Dice di non avere tempo per fare jogging, ma lui, a differenza di qualche compagno dell’epoca, non ha messo su neanche un chilo. Fabio in realtà è diventato dottore in giurisprudenza alla Federico II e ha preso l’abilitazione per l’avvocatura a Bologna. Nell’ultimo periodo prima di lasciare Madrid rilasciava interviste e si faceva fotografare sorridente in camicia bianca. A volte ai cronisti spagnoli diceva: “Cosa volete, non avrei mai pensato che il calcio potesse essere la mia vita. Che mi avrebbe portato fino a Madrid. Io cercavo di assicurarmi un lavoro e magari fare l’avvocato, entrare in tribunale e seguire una causa. Ma la vita non sempre va come crediamo debba andare. E poi, la sapete la storia di quell’uomo che era arrivato a Napoli con due semi in tasca?”