Gli 11 apodos dell’Albiceleste

Gli 11 apodos dell’Albiceleste
1 Aprile 2015 scat

Qualcuno se lo porta da casa, da un punto sperduto della sua infanzia passata su campi di terra o di cemento. Altri lo ricevono in dono o in segno di scherno da giornalisti, filosofi da bar e tifosi, amici o nemici. In Argentina l’apodo non è un semplice soprannome. In un paese dove il calcio somiglia a Dio “nella devozione che gli portano molti credenti e nella sfiducia che ne hanno molti intellettuali” i nomi propri perdono significato ed emerge il bisogno di ribattezzare gli uomini per trasportarli in una dimensione diversa, religiosa e caricaturale al tempo stesso. E così, per tutti i calciatori professionisti, arriva il momento in cui un semplice soprannome diventa un vero apodo, il momento in cui una persona che ogni tanto gioca a calcio diventa un calciatore che ogni tanto è anche una persona.

Stilare un elenco di tutti gli apodos sarebbe un’impresa da anima monacale ed è confortante immaginare che qualcuno, perso nella pampa battuta dai venti, lo stia già facendo. Questa è la nostra formazione ideale degli apodos argentini, schierata con rigore tattico ma scelta con spirito nozionistico e, naturalmente, sentimentale.

La nazionale argentina di Valderrama.

Schema di gioco: un 4-4-2 ancorato in difesa, equilibrato in mezzo al campo, spregiudicato sulle fasce e spietato in attacco.

Allenatore: el Cabezón, nato Héctor Raúl Cúper. Da notare qui che il soprannome Hombre vertical, diffuso quasi esclusivamente in Italia, non ha mai scalzato l’apodo originale, conquistato dal Cúper giocatore grazie alla sua abilità nei colpi di testa.

Portiereel Rifle, il fucile, nato Hernán Castellano il 3 agosto del 1972 a Marcos Juárez. La città, situata nella zona orientale della provincia di Córdoba e precedentemente nota con il nome di Santino Arias Oropel, prende il nome da Marcos N. Juárez, fratello maggiore del presidente Miguel Juárez Celman nonché  fondatore del Club El Panal, associazione politico-massonica dedita alla diffusione del juarismo e diventata talmente importante alla fine dell’ottocento che le sue azioni venivano scambiate in borsa e accettate come forma di pagamento dal Banco Provincial. La vita del Rifle è invece legata indissolubilmente al Rosario Central, squadra dove ha militato all’inizio e alla fine della carriera. Narrano i cronisti che durante una partita contro il River Plate abbia chiesto all’arbitro di fischiare la fine al più presto, “altrimenti questi ci segnano dieci gol”. Il punto più alto della sua esistenza tra i pali Castellano lo vive il 26 giugno del 1996, quando para un rigore a Diego Armando Maradona, neutralizzando miracolosamente anche la successiva ribattuta. (Per onore di cronaca va ricordato che quel rigore arrivò esattamente nel mezzo di un’incredibile serie di cinque tiri dal dischetto falliti consecutivamente da Maradona nel torneo di clausura). Ancora oggi el Rifle detiene il record per il maggior numero di espulsioni dalla panchina.

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Difesa

Numero 2: el Flaco, lo smilzo, nato José Antonio Chamot Picart il 17 maggio del 1969 a Concepción del Uruguay. La città, situata nella provincia di Entre Ríos, fu fondata nell’inverno del 1783 con il nome completo di Villa de Nuestra Señora de la Inmaculada Concepción del Uruguay da un militare del vicereame della Nuova Spagna, Tomás de Rocamora. “La bacia un fiume di grano, la rinfresca un lungo arenile, e sulla riva fischiante la luna sale a sognare”, recita una strofa dell’inno cittadino composto da Los Hermanos Cuestas. Duecento anni dopo la fondazione della sua città natale, nell’estate del 1990, el Flaco lascia il Rosario Central dopo tre stagioni in crescendo per approdare al Pisa. In Italia resta fino al 1998, indossando anche le maglie del Foggia e della Lazio, squadra con cui segna il suo unico gol in Serie A il 28 novembre 1993, in un 4-0 casalingo rifilato al Genoa. Il 9 aprile 1998 viene fermato per un turno dal giudice sportivo perché al termine della gara con la Juventus del 5 aprile “si è avvicinato all’arbitro, gli ha teso la mano come per compiere l’usuale cortese gesto di saluto, invece con atto irriguardoso e in segno di dissenso rispetto alla direzione di gara, gli ha stretto la mano con forza spropositata”. Oggi sulla sua pagina all’interno del sito degli Atleti di Cristo si legge: “Dio conosce i desideri del mio cuore […] il calcio dev’essere visto come uno sport di cui possano beneficiare tutte le persone di tutte le età insieme alle loro famiglie, cancellando la violenza ed i cattivi interessi che non hanno nulla a che vedere con il calcio stesso”.

Numero 3el Moncho*, nato Pedro Damián Monzón il 23 febbraio 1962 a Goya. La città, la seconda più popolosa della provincia di Corrientes e bagnata dal fiume Paraná, non ha un fondatore ma si è sviluppata progressivamente nel corso del XVII secolo come snodo del commercio fluviale. Nel 1847 passarono da Goya il sacerdote Ladislao Gutiérrez (figlio del governatore di Tucumán) e la sua amante Camila O’Gorman, diciottenne aristocratica. I due, in fuga verso il Brasile, gradirono la località a tal punto da farne la loro fissa dimora, fino a quando nell’agosto dell’anno successivo furono scoperti, processati e fucilati. Al momento dell’esecuzione Camila era incinta di otto mesi. Quasi un secolo e mezzo dopo, l’8 luglio del 1990, alle 21:10 ora di Roma, el Moncho diventava l’unico giocatore a essere espulso durante una finale del Campionato del Mondo di calcio, un onore che 12 minuti dopo avrebbe dovuto dividere con il connazionale Gustavo el Galgo Dezotti. Oggi quelli che ancora ricordano quel cartellino rosso hanno probabilmente dimenticato la sceneggiata di Klinsmann e il fatto che el Moncho aveva anche segnato un gol alla Romania nella fase a gironi. Al ritorno dalla spedizione italiana, la carriera di Monzón intraprese una rapida parabola discendente, accelerata dalla forte dipendenza dalla cocaina. Persa la fiducia dei dirigenti dell’Independiente, squadra per cui aveva militato per 11 stagioni, cominciò a vagabondare tra Argentina, Ecuador, Peru e Cile. Il 15 dicembre 2014 è stato esonerato dall’incarico di allenatore del Club Social y Deportivo Flandria, squadra di terza divisione argentina.

*L’origine e il significato dell’apodo Moncho, di solito usato come diminutivo di Ramon, in questo caso non sono perfettamente chiari. Nell’agosto del 2013, a un giornalista che gli chiedeva di spiegarlo, Monzón rispose così: “Me lo ha dato Claudio Marangoni, forse perché somigliavo a un personaggio di un film o perché quelli di campagna li chiamano spesso Moncho. Nella mia terra mi chiamavano Nené, oppure semplicemente Negro.”

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Numero 5 : el Morrón, il peperone, nato Pablo Oscar Rotchen Suárez il 23 aprile 1973 a Buenos Aires. La città, futura capitale argentina, fu fondata l’11 giugno del 1580 (con il nome di Ciudad de la Santísima Trinidad y Puerto de Santa María del Buen Ayre) dal conquistatore spagnolo Juan de Garay, ucciso tre anni più tardi dagli indigeni querandíes in una laguna sconosciuta del fiume Paraná, mentre era in viaggio verso Santa Fé. Quasi cinque secoli dopo, el Morrón raccontava che da bambino sua nonna gli aveva consigliato di non dire a nessuno di essere un discendente degli indigeni. La fisionomia non si prestava all’inganno, e comunque Rotche non aveva alcuna intenzione di nascondere le sue origini huarpes, tanto da sfoggiare in diverse occasioni una maglietta in difesa dei pueblos originarios. La carriera del Morrón, divisa tra Argentina, Spagna e Messico, ha raggiunto il suo apice con la convocazione in nazionale per la Coppa America del 1997, dove ha giocato titolare al centro della difesa nelle tre partite del girone. Espulso nell’ultima sfida pareggiata contro il Paraguay, è stato squalificato per i quarti di finale e non ha potuto far nulla per impedire la sconfitta e relativa eliminazione dell’Argentina per mano del Perù. A Barcellona in molti ricordano ancora quella volta che el Morrón aggredì Rivaldo, reo di aver tentato un’irrispettosa rabona a porta vuota quando la partita era ormai decisa.

Numero 6 : el Ruso, il russo, nato Edgardo Fabián Prátola il 20 maggio 1969 a La Plata. La città fu fondata il 14 marzo del 1882 (come capitale della provincia di Buenos Aires dopo la rivoluzione del 1880) da Dardo Rocha Arana, che in quella solenne occasione pronunciò le seguenti parole: “Abbiamo dato alla nuova capitale il nome del magnifico fiume che la bagna, e depositiamo questa pietra sperando che qui restino sepolte per sempre le rivalità, l’odio, i rancori e tutte le passioni che hanno ostacolato per così tanto tempo la prosperità del nostro paese”. Fino al maggio del 2014, el Ruso ha detenuto il record per il maggior numero di espulsioni nella storia del calcio argentino, con 22 cartellini rossi in coabitazione con Roberto el Cabezón (come Cúper) Trotta. Fatta eccezione per una parentesi messicana e un’anonima stagione nell’Unión de Santa Fe, Prátola ha trascorso l’intera carriera nell’Estudiantes, squadra della sua città natale. Giocò e vinse la sua ultima partita l’11 marzo del 2001, contro gli acerrimi rivali del Gimnasia. Un anno dopo, in punto di morte, chiese che la sua squadra non posticipasse la successiva partita con l’Indipendente per onorarne la scomparsa. L’incontro, disputatosi regolarmente il 27 aprile del 2002 a poche ore dalla dipartita del Ruso, terminò a reti inviolate.

Centrocampo

Numero 4: el Pitón, il pitone, nato Osvaldo César Ardiles il 3 agosto del 1952 a Cordoba. La città fu fondata il 6 luglio del 1573 dal conquistatore spagnolo Jerónimo Luis de Cabrera Zúñiga y Toledo, che aveva ricevuto dal viceré del Peru Francisco Álvarez de Toledo l’ordine di “fondare e popolare nella valle del Salta, nel luogo che riterrà opportuno, una città di spagnoli, affinché dai regni del Peru si possa entrare nelle province senza incontrare i pericoli che finora hanno segnato la rotta”. Cabrera decise però di ignorare le istruzioni del viceré, e accompagnato da 100 uomini e un migliaio tra cavalli, muli, pecore, maiali e galline scelse un sito molto più a sud, fertile e pittoresco. La sua disobbedienza non restò impunita, e il 17 agosto del 1574 fu decapitato a Santiago del Estero (secondo un’altra versione, meno accreditata, fu giustiziato tramite garrota vicino al suo letto, senza ricevere i sacramenti). Quattrocento anni dopo, il 7 luglio del 1981, al XII Festival cinematografico internazionale di Mosca veniva presentato Fuga per la vittoria, film in cui el Pitón interpreta il personaggio di Carlos Rey ed esegue una spettacolare bicicletta al rallentatore. La carriera di Ardiles è legata alla maglia del Tottenham, con cui ha disputato dieci stagioni dal 1978 al 1988, con una parentesi in prestito al Paris St. Germain dovuta al clima difficile per gli argentini in Inghilterra durante la guerra delle Falkland/Malvinas. Nel 1993 Ardiles è tornato a White Hart Lane in veste di allenatore, ma è stato esonerato per scarsi risultati al termine di una stagione conclusa al quindicesimo posto nonostante l’acquisto di giocatori come Jürgen Klinsmann, Ilie Dumitrescu e Gheorghe Popescu. Negli ultimi anni è stato avvistato sulle panchine dei campionati giapponese, croato, israeliano e anche argentino. Palmarès da giocatore: un Mondiale e una FA Cup. Attuale palmarès da allenatore: 2 coppe Tokai, una coppa Yamazaki Nabisco e una coppa dell’Imperatore.

Numero 7: el Pájaro, l’uccello, nato Claudio Paul Caniggia il 9 gennaio del 1967 a Henderson. La città, fondata nel 1909, prende il nome da Frank Henderson, cittadino inglese e presidente della Ferrocarril Midland de Buenos Aires nonché primo presidente del Club Atlético Peñarol. Settantasette anni dopo, lo stesso Peñarol sarà eliminato dalla Coppa Libertadores dal River Plate, futuro vincitore della competizione. Tra le fila di quel River milita il diciannovenne Caniggia, promettente, velocissimo ma ancora troppo inesperto per affermarsi in una squadra di campioni guidati dal Enzo el Príncipe Francescoli. L’anno successivo, partito Francescoli per un’esperienza abbastanza paradossale al Racing “Matra” di Parigi, l’astro nascente Caniggia torna ad affrontare il Peñarol in Coppa Libertadores, ma questa volta saranno gli uruguaiani a vincere e a proseguire la marcia verso la vittoria finale del torneo. Un anno dopo el Pájaro lascerà il River e l’Argentina per approdare in Italia, dove giocherà per sei anni con le maglie di Hellas Verona, Atalanta e Roma, mettendo a segno 33 gol. La sua lunga carriera – in cui ha toccato le coste del Portogallo e della Scozia – si è conclusa nel 2004 sulle sponde del Golfo persico. Otto anni dopo, quando era ormai costretto a dividere gli onori della cronaca con la moglie indagata per truffa e la figlia soubrette maggiorata, Caniggia è tornato in campo con il Wembley F.C in una bizzarra stagione-documentario, segnando un gol in un turno preliminare di FA Cup contro il Langford, all’età di 45 anni.

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Numero 8: el Turquito, il piccolo turco, nato Hugo Hernán Maradona il 9 maggio 1969 a Lanús, oggi parte del conglomerato urbano del Gran Buenos Aires. Abitata in epoca pre-coloniale da tribù pampa e guaraní, in seguito la zona fu occupata dal più antico insediamento del Viceregno del Río de la Plata. Il primo proprietario delle terre distrettuali assegnate da Juan de Garay fu Juan Torres de Vera y Aragón. Nato nei pressi di Siviglia nel 1527 e morto nell’attuale Bolivia 86 anni dopo, de Vera aveva sette fratelli, due dei quali parteciparono alla conquista delle Indie occidentali. Anche Hugo Maradona ha sette fratelli, due dei quali sono stati calciatori professionisti. Presto dimenticato nella sua parentesi italiana ad Ascoli, el Turquito è invece ricordato con affetto in Giappone, dove ha giocato 153 partite mettendo a segno ben 83 gol. L’apice della sua carriera, comunque, è arrivato in una partita giocata contro il Congo, l’ultima del girone B ai Mondiali Under-16 disputati nel 1985 in Cina. L’Argentina, in cui giocava anche Fernando el Príncipe (anche lui, come Francescoli) Redondo, vinse per 4-2 grazie una doppietta del turquito, che colpì anche un clamoroso incrocio dei pali su punizione. Nonostante la vittoria, gli argentini furono eliminati dal torneo. Per un solo gol di differenza reti. 

Numero 10: el Fideo, lo spaghetto, nato Ángel Fabián Di María Hernández il 14 febbraio del 1988 a Rosario. La città non è nata da un atto fondativo ma si è sviluppata autonomamente grazie alla sua posizione favorevole lungo il Camino Real, la rotta che univa Buenos Aires all’Alto Peru (attuale Bolivia). Il suo primo proprietario terriero è stato il capitano Juan Romero de Pineda, che il 29 agosto 1689 ricevette la concessione come compenso per i servigi prestati alla corona. Pineda morì cinque anni più tardi lasciando le terre a sua figlia Juana Romero de Pineda, che nel 1702, in previsione di una dipartita che credeva prossima (sbagliando) scrisse il suo primo testamento in cui sottolineava la presenza nella zona di “alcune case di contadini e di un mulino per la preparazione della farina”. Tre secoli dopo, all’ultima giornata del torneo di apertura 2005, el Fideo esordiva all’età di 17 anni nella squadra della sua città, il Rosario Central, allenato da quel Ángel Tulio el Viejo Zof che diciotto anni prima aveva fatto esordire anche el Flaco Chamot. Da quel momento per Di Maria iniziò un’imprevedibile ascesa che lo ha portato a giocare nel Real Madrid delle stelle e a disputare un mondiale 2014 da assoluto protagonista, reinventato dal commissario tecnico Alejandro Panchorra Sabella come centrocampista centrale. Dopo aver risolto all’ultimo respiro la partita degli ottavi di finale contro la Svizzera, el Fideo ha subìto un infortunio muscolare che ha privato la squadra del suo unico creatore di gioco in mezzo al campo. L’Argentina è comunque riuscita a raggiungere la finale trascinando lo 0-0 della semifinale contro l’Olanda fino alla fine dei supplementari e vincendo ai rigori, ma è stata punita in finale da uno spunto episodico di Mario Goetze e dagli errori della sua presunta stella, Lionel Messi. Terminato il mondiale, Di Maria è stato sostanzialmente sacrificato dal Real sull’altare del nuovo idolo James Rodriguez e ceduto al Manchester United, nonostante abbia appena stabilito il record di 17 assistenze in una stagione. Il 2 settembre scorso el Fideo ha affrontato la Germania in un’ironica “rivincita” amichevole di quella finale mondiale che è stato costretto a guardare da bordocampo. Ha segnato un gol e regalato tre assist nel 4-2 finale.

Attacco

Numero 11, el Piojo, il pidocchio, nato Claudio Javier López il 17 luglio del 1974 a Río Tercero, città fondata il 9 settembre 1913 da Don Modesto Acuña. In gioventù Acuña era stato uno scolaro di belle speranze, ma una lunga malattia lo aveva costretto ad abbandonare gli studi per dedicarsi prima al commercio e poi alla gestione delle terre del padre. Nel 1909 fondò la piccola città (ormai scomparsa) di Media Luna, così battezzata perché situata lungo un’ansa del fiume Tercero. Pochi anni dopo arrivò la ferrovia che avrebbe collegato Rosario e Córdoba, e Acuña accettò di regalare agli inglesi le terre di cui avevano bisogno a condizione che fosse lui a decidere il punto in cui fondare la stazione e la città che avrebbero portato il suo nome, nei pressi del nuovo puente negro. Prima della sua morte, avvenuta il 25 ottobre del 1915 a causa di una polmonite, Acuña fece in tempo a vedere la città di Modesto Acuña cambiare nome insieme alla stazione perché gli inglesi consideravano più logica l’esistenza di un Rio Tercero (fiume terzo) tra le stazioni di Rio Segundo e Rio Cuarto. Novantacinque anni dopo la morte del fondatore della sua città, il 15 dicembre 2010, el Piojo si dichiarò eleggibile per il draft di selezione dei calciatori svincolati della Major League Soccer. Pochi mesi prima i Colorado Rapids, squadra con cui aveva conquistato l’ennesimo titolo della sua carriera, avevano deciso di non rinnovargli il contratto. La selezione, svoltasi per teleconferenza, si concluse senza che nessuna delle 20 squadre partecipanti decidesse di puntare su López (soltanto due giocatori svincolati furono messi sotto contratto, Joseph Ngwenya dal D.C. United e Aaron Hohlbein dal Columbus Club). Terminava in questo modo inglorioso la carriera di un grande attaccante del calcio mondiale a cavallo tra i due millenni. Cresciuto nel Racing Club de Avellaneda, el Piojo è ricordato soprattutto per la sua militanza nel grande Valencia, con cui realizzò 74 gol, e nella Lazio post-scudetto, con cui segnò 40 gol al fianco dei vari Crespo (el Valdanito), Salas (el Matador), Nesta, Nedved, Mihajlovic, Stanković e Verón (la Brujita).

Numero 9, el Loco, il pazzo, nato Martín Palermo il 7 novembre 1973 a La Plata. Della sua città natale abbiamo già detto, mentre della sua storia abbiamo già parlato altrove. Qui basterà ricordare che è uno dei giocatori con più apodos nella storia del calcio argentino, tra cui el Optimista, el Titán e soprattutto el Hombre de la película, l’uomo del film, assegnatogli per la sua storia sofferta ed edificante ma anche per le sue apparizioni sul grande schermo. Ricordato per un gol di testa da centrocampo, per una partita in cui sbagliò tre rigori e per un gol in mischia in un diluvio universale che regalò la qualificazione mondiale all’Argentina allenata da Maradona, Palermo è il miglior marcatore nella storia del Boca Juniors. In Argentina quest’ultimo record ha partorito una telenovela infinita, con tanto di spaccatura tra i tifosi e accuse di egocentrismo rivolte al suo compagno Juan Román el Mudo Riquelme, che secondo alcuni avrebbe addirittura voluto umiliarlo facendogli segnare il gol del primato a porta vuota dopo una serie di tentativi vani. Tantas veces me mataron, tantas veces me morí y acá estoy, resuscitando