All’ingresso dello stadio El Morro di Talcahuano c’è una statua in bronzo che riproduce Ramón Unzaga mentre si cimenta in quella che nei paesi ispanofoni è conosciuta come la chilena. Unzaga era cileno, naturalizzato spagnolo, morì d’infarto a 29 anni e verrà ricordato per sempre per il gesto tecnico di cui si pensa sia stato l’inventore. La statua è abbastanza brutta, poggia sgraziatamente su tre pali accostati gli uni agli altri che finiscono per conficcarsi nella schiena del povero Unzaga. Le gambe di Ramón restano sospese nell’aria a novanta gradi e, più che una chilena, la statua sembra rappresentare un povero cristo scivolato su una buccia di banana. Il monumento non riesce nemmeno lontanamente a restituire la bellezza del gesto, ma d’altronde restituire il senso profondo della grazia è tra le cose più difficili a questo mondo. Spesso si dice che a chi non è dato essere particolarmente bello sia concessa, per compensare, una predisposizione alla strategia. Così, mentre quelli aggraziati verranno ricordati per gesti effimeri e perituri, gli altri si occuperanno di costruire i destini del mondo.
È molto strano che la storia di Antonio Conte agli Europei passi proprio dallo sgraziato monumento di Ramón Unzaga. Conte ha preso parte a due grandi competizioni internazionali con la maglia dell’Italia: i mondiali di USA 1994 e gli Europei di Olanda e Belgio del 2000. In entrambe le circostanze la nazionale ha raggiunto la finale e per due volte è stata sconfitta dopo aver concluso in parità i tempi regolamentari. A USA 1994 Conte era un calciatore giovane e dinamico, perfettamente adatto alla fluidità degli schemi di Sacchi. Partito titolare contro la Spagna, Conte si è piazzato sulla destra del centrocampo a quattro; in semifinale, contro la Bulgaria, è subentrato a Dino Baggio schierandosi al fianco di Demetrio Albertini al centro della mediana.
Agli Europei del 2000 Conte giocò da centrale di centrocampo al fianco di Albertini e segnò il suo primo e unico gol in una fase finale di una competizione internazionale con la maglia azzurra. Al 52’ del secondo tempo della partita contro la Turchia, su un lancio lungo a scavalcare il centrocampo, Inzaghi fece da sponda per Fiore che gli restituì la palla in pallonetto, Pippo provò una sua classica diagonale da posizione defilata, ma il pallone, respinto di tacco da uno dei centrali di difesa turca, arrivò fino a Conte che, pur essendo sbilanciato, riuscì a coordinarsi in qualche modo per colpire la palla e a mettere in rete il vantaggio italiano. Tecnicamente si trattò di una rovesciata, su questo non si può discutere. Ma parlare di rovesciata, davanti alle immagini di Conte ripiegato su se stesso come una vongola, lascia innegabilmente un po’ d’amaro in bocca. In ogni caso la sfortunata esperienza di Conte in Belgio e Olanda terminò con un brutto infortunio, un’entrataccia di George Hagi nei quarti di finali contro la Romania che lo escluse dall’epica semifinale contro l’Olanda e dalla sciagurata finale contro la Francia. La rovesciata rimase quindi il momento più alto della carriera di Conte con la maglia Azzurra. L’Italia di Zoff giocava con un 5-3-2 in cui gli esterni, a dispetto di quanto si potesse pensare, facevano poco i terzini e dovevano spingere, oltre a coprire.
L’allenatore Antonio Conte è un uomo che ha il senso del limite. Nell’Italia di Conte, una squadra che non crea molto e che non segnerebbe nemmeno se in attacco ci fosse Roberto Baggio, si applica un 3-5-2 in cui gli attaccanti giocano a fare i primi difensori e gli esterni offensivi sono costretti ad abbassarsi se non vogliono beccarsi una strigliata. Il gioco di questa Italia si basa su una sorta di violenza ideologica: Conte pretende che la squadra giochi come se volesse recuperare il pallone anche se ha il pallone tra i piedi. E non è il primo a far questo: la nazionale di Prandelli, all’Europeo del 2012, era arrivata al traguardo in debito d’ossigeno proprio perché aveva provato a sopperire con l’intensità a una modesta qualità.
A Conte però non piace raccogliere il testimone. Ha bisogno di rompere con il passato anche quando non può farlo veramente. La sua vicenda sembra essere racchiusa in quel goffo gesto tecnico in cui, come nella statua di Ramón Unzaga, si trova a gambe all’aria e colpisce la palla con la forza della disperazione piuttosto che con mirabile coordinazione. Quella stessa disperazione che ha trovato nella Juventus, raccolta dopo due settimi posti e portata a un’insperata vittoria del campionato. La sua Juventus non era forte quanto il Milan di Allegri, ma Conte aveva “fame” e pretendeva che tutti i giocatori avessero “fame” come lui. Il suo sistema di gioco era efficace perché voleva uscire da un digiuno che non guardava in faccia alla realtà dei fatti. Il mister rivedeva al ribasso le capacità psichiche della squadra per cercare di portarne all’eccesso l’agonismo.
Allo stesso modo, la nazionale di Conte è una squadra che nella sua versione migliore è spietata e crudele, e che per essere al massimo ha bisogno di asfissiare la manovra avversaria con un ritmo e un’intensità di gioco molto alti. Una squadra che ha bisogno di una condizione atletico-tattica perfetta, una squadra infervorata dal fuoco sacro del maschilismo nazionale. Un gruppo che, per essere in grado di rispondere alle pretese dal CT, deve fare ricorso a un coadiuvante psicologico, quello che Conte semplifica – incurante della retorica stantia – con il concetto di “fame”. Un’espressione che, sulle sue labbra, si trasforma da bisogno fisiologico a sentimento, da necessità a volontà.
Conte attinge questa “fame” dai condizionamenti sociali che nascono fuori dal campo di calcio. L’Italia di Conte è una squadra che non ricorda gli europei di Cesare Prandelli: è l’Italia del baratro Mondiale, delle due eliminazioni consecutive ai gironi di Sud Africa e Brasile. Una nazionale che non avendo un programma politico adeguato prova a sopperire con la rabbia. Una squadra che prima di scendere in campo litiga con Antinelli e che velatamente prova a dire d’essere fuori dai giochi, che vive nella dittatura del presente e che pensa che la storia valga ben poco.
Conte ha accettato di mostrarsi in televisione prima degli europei e stare al gioco di Antonella Clerici, la quale, per un attimo, ha sperato di vedere qualche lacrima d’emozione nel blu dei suoi occhi da normanno. La Clerici ha chiamato in studio Antonio Benarrivo, che nel 1994 era stato il compagno di stanza di Conte. Ma l’Antonio che vale non è però andato oltre a qualche pacca sulla spalla e ad un’annusata virile tra uomini. Lo studio della RAI, per l’occasione pieno zeppo di bambini e vecchi, ha applaudito l’ingresso di uno sconosciuto dietro l’altro e non ha potuto fare a meno di battere le mani anche a un Benarrivo che si presentava con i capelli lisci e piastrati, come se avesse voluto ridurre l’autenticità dei suoi famosi ricci per non offendere il chiacchierato impianto tricologico del CT.
Antonio può fare tutto. La rabbia, la fame e la retorica stantia contro ogni buonsenso e contro ogni buonismo e fatalismo prandelliano possono tutto. Possono ribaltare pronostici, risultati, finanche invertire i processi naturali, come l’alopecia. Da quando è CT, Conte probabilmente riguarda spesso il gol alla Turchia. Mostra ai giocatori come anche un gregario possa assurgere a nobile, cogliendo l’attimo, senza un programma politico, senza ideologia, ma con la rabbia, la fame, l’opportunismo che premia l’uomo qualunque altrimenti mondato dagli ingranaggi della storia. Eppure quel gesto, per il Conte di oggi che parla inglese e ha gli occhi da normanno, pare sporcato – oltre che dalla totale assenza di eleganza – da quella chierica, da quella “cento lire”, come la chiamavano i compagni ai tempi del Lecce, goffamentec amuffata da riporti accaniti e disperati. Solo contro tutti, con la rabbia, la fame e la retorica. Conte dentro di sé pensa abbiano chiamato Benarrivo, notoriamente il suo ex compagno con la capigliatura più prorompente, per provocarlo. Per ricordargli, davanti ai vecchi e ai bambini figuranti RAI, la bassezza del momento più alto della sua carriera, la rovesciata alla Turchia, la Clerici, la chierica, il dolore dell’osso sacro impattato al suolo nascosto dall’esultanza scomposta.
Prima di andarsene da Coverciano, il CT ha fatto tutto ciò che voleva fare, ha infranto qualsiasi etichetta fino a partire per gli Europei con in tasca un contratto milionario con un club che gli potrà garantire gli investimenti che pretendeva alla Juventus, e l’ha annunciato senza volersi prendere sulle spalle le responsabilità di un’eventuale débâcle. E se il CT è un cafone, un piagnone, un baro, un imbroglione, ha anche la strafottenza di impersonare la retorica nazionalpopolare del “ci penso io”. Un atteggiamento che le modalità di gioco della sua nazionale rispecchiano: costruita per essere di lotta pur restando al governo, è il miracolo populistico di Antonio Conte, un uomo che, non potendo esser bello, si è convinto di poter cambiare i destini del mondo. Con le gambe all’aria, come il povero Unzaga, ma con la faccia tosta, più del bronzo della statua all’ingresso dello stadio El Morro di Talcahuano. Con la rabbia, con la fame, con lo scalpo fieramente opposto al destino.