Slough, Berkshire, 10 aprile 1988
La scala di ferro scendeva al piano seminterrato fino ad una porta scassata, con il solo disegno di un pugno bianco alzato come insegna. All’interno del locale tra croci celtiche e la densa cortina di fumo di sigaretta, decine di ragazzi rasati bevevano birra ad un bancone improvvisato ballando al suono delle urla di una canzone punk:
Vedo il mio paese che scende nelle fogne,
Sono errori di tutti, siamo tutti colpevoli.
Li stiamo lasciando prendere il potere, li lasciamo venire da noi.
Una volta avevamo un Impero, ora abbiamo una discarica!
Bruce superò una pozzanghera di vomito e raggiunse il bancone tra gli sguardi ostili degli avventori. L’ambiente era più squallido di come glielo aveva descritto il suo amico poliziotto. La luce era quella plumbea delle cinque di pomeriggio. Le birre quelle che danno la sbronza prematura e il mal di testa. Ora capiva perché gli era stato consigliato di non andarci da solo. La sensazione era quella di un mormorio crescente, minaccioso e sospeso come quello prima dei rigori sotto la curva avversaria, che poteva in qualunque momento trasformarsi in grida e rumore di bottiglie spaccate. Il brusio di ratti in una fognatura il cui coperchio stava per esplodere. L’istinto di Bruce fu quello di iniziare a muoversi freneticamente, come un tarantola, per distrarre gli avversari. Da tre anni aveva cominciato ad indagare sui possibili legami tra la tragedia dell’Heysel e gli ambienti dell’estrema destra londinese. Nei terribili mesi successivi alla partita alcuni indizi lo avevano convinto che l’incubo di quella notte fosse stato preparato a tavolino. L’odio verso Liverpool e l’invidia per i suoi successi calcistici erano sotto gli occhi di tutti. Sua suocera gli aveva raccontato che durante il viaggio in traghetto verso il Belgio, degli energumeni distribuivano volantini sui quali era scritto che sarebbe stata l’ultima partita del Liverpool in Europa. Avevano tatuaggi sulle braccia con gli stemmi di Chelsea, Milwall e del National Front. Altri amici gli avevano confermato di aver incontrato, prima della partita, gruppi di tifosi con sciarpe del Liverpool ma con un marcato accento londinese. Bruce si accese una sigaretta ma prima di poter chiedere una birra gli si fece incontro un ragazzone tatuato:
“Cosa ci fai qui?”
“Sono sceso da Marte per vedere come si divertono i terrestri.”
“Tu non sei un marziano, sei Bruce Grobbelaar il portiere del Liverpool.”
Bruce sapeva che l’avrebbero riconosciuto subito, i suoi baffi e le sue spalle erano inconfondibili. Ma sapeva anche che essere un bianco proveniente dalla Rhodesia lo avrebbe aiutato a rompere il ghiaccio. Con poche ma mirate battute riuscì infatti a farsi passare per un razzista convinto. Il ragazzone cominciò presto a prenderlo in simpatia. Il discorso passò da quel bastardo di Mugabe all’orrore di una Rhodesia governata dai neri, fino a che cominciarono a parlare della guerra. “Stronzi”. Bruce raccontò di essere entrato nell’esercito nel 1975 durante la sanguinosa guerra civile che da dieci anni contrapponeva l’esercito regolare dell’ex colonia britannica ai i guerriglieri neri di Mugabe. “Fottuti zulu”. Nelle sei settimane di addestramento per caricare gli animi durante i combattimenti corpo a corpo con la baionetta, i superiori gli facevano urlare “ti ammazzo, bastardo negro!”. “Quelli erano uomini veri”. Una notte la sua pattuglia era stata inviata con gli elicotteri in un villaggio al confine col Mozambico con il solo ordine di uccidere ogni cosa si muovesse. Camminavano nella foresta con la paura dei cecchini e con l’odore di corpi bruciati dalle bombe incendiarie nelle narici. I terroristi erano dappertutto e ben presto fu chiaro che si trovavano in un’imboscata. Molti dei suoi commilitoni vennero uccisi o feriti. Bruce cercò di ripiegare verso gli elicotteri e dopo una corsa disperata si trovò di fronte ad un uomo. Non sentì altro che sollievo in quel momento, per aver sparato per primo e per il fatto che l’uomo non fosse vestito in abiti civili. Quando ci si trova faccia a faccia con il nemico è chiaro che uno dei due deve morire, ma questo non rende più semplice superare il senso di colpa. Gli incubi cominciarono dopo. Tutto il resto sembrava insignificante di fronte a quegli anni.
Nonostante la musica assordante altri avventori si erano fermati ad ascoltare il suo racconto e lo avevano riconosciuto. Alcuni gli stringevano la mano e cominciavano a dargli fraterne pacche sulle spalle, a fargli domande sul passato. Gli chiesero della squadra e se il Liverpool avrebbe vinto la prossima partita con il Nottingham Forest nella semifinale di FA Cup. Il ragazzone tatuato gli offrì una birra e Bruce decise che era arrivato il momento di cambiare discorso. E cominciò a parlare di Bruxelles. Disse che ciò che aveva visto quella notte era infinitamente peggiore di tutto ciò a cui aveva assistito negli anni nella foresta. Cristiani che si comportavano come selvaggi, uomini che sembravano bestie. Le atrocità della guerra sono in qualche modo più semplici da accettare perché ce le si aspetta. Ma sono l’ultima cosa che qualcuno dovrebbe vedere in uno stadio. La mattina del giorno della partita aveva fatto una passeggiata in centro. Molti tifosi di Liverpool e Juventus giocavano a calcio fra loro, per strada. Decine di persone bevevano birra e cantavano, l’atmosfera era festosa. Qualche poliziotto passava e sorrideva, seguendo col manganello il ritmo dei cori. Nulla a che vedere con il clima di tensione che si respirava a Roma l’anno prima, nelle ore precedenti alla finale di Coppa Campioni contro la padrona di casa.
L’atmosfera cambiò completamente allo stadio. Mancavano pochi minuti all’inizio del riscaldamento e Bruce stava tastando il terreno attorno alla porta. Tra l’erba trovò tre coltelli a serramanico, lanciati probabilmente dal settore alle sue spalle. Negli spogliatoi l’atmosfera era convulsa e già si parlava di scontri tra tifosi quando cominciarono ad arrivare persone ferite da fuori. Bruce e altri compagni riempirono dei secchi d’acqua e li passarono con degli asciugamani ai feriti. Riuscirono a fare solo questo, ma ormai sapevano abbastanza per non voler più giocare. La colpa di tutti quei morti pesava sulla coscienza degli organizzatori della partita, che avevano scelto uno stadio fatiscente e venduto biglietti a famiglie italiane per i settori vicini agli hooligan inglesi. Pesava sulla coscienza delle inutili forze dell’ordine, disorganizzate, spaventate e in numero insufficiente a far fronte ad un’ecatombe tale. E soprattutto pesava sulla coscienza di quei criminali che avevano scatenato l’attacco premeditato al settore dello stadio dove sedevano le famiglie dei tifosi della Juventus, perpetrando un massacro. Quando l’allenatore Joe Fagan comunicò alla squadra che si doveva giocare per evitare altri scontri, Bruce si sentì morire dentro. La partita durò un istante dall’inizio alla fine, strinse la mano a Tacconi e al rientro in albergo si lasciò avvolgere dal buio. La mattina dopo era pronto a lasciare il calcio e a tornare a casa, ci vollero mesi per tornare a vivere.
Bruce smise di parlare, bevve l’ultimo sorso di birra e guardò fisso negli occhi del suo interlocutore. Lui distolse lo sguardo e si girò, in direzione di altre teste rasate. Gli altri avventori avevano già da alcuni minuti cominciato ad osservarlo in silenzio, con crescente ostilità. Il mormorio si era fermato del tutto. Un uomo che indossava una maglietta con un teschio in fiamme eroso dai troppi passaggi in una lavanderia a gettoni, gli gridò qualcosa. Bruce vide solo gli occhi azzurri, elettrici, le narici scure e cavernose, e la bocca sdentata che si muoveva schiumante, al rallentatore, senza emettere suoni. La voce era occultata dalla canzone che intorno a loro non smetteva di urlare: “Dopo il fuoco, resteranno le rovine. Dopo il fuoco nascerà una nuova alba”. Il ragazzone tatuato gli si avvicinò:
“Cosa sei venuto a fare qui, Bruce Grobbelaar?”.
“Voglio sapere se conoscete qualcuno coinvolto con quello che è successo all’Heysel”.
“Forse è meglio se ritorni su Marte, Bruce Grobbelaar”.