Articolo originale di David Mata per Ecos del Balon
Siamo affascinati dai viaggi nel tempo e dai mondi paralleli. È un fascino nostalgico, paradossale e nelle sue varianti più patologiche anche malinconico, ma offre interessanti soluzioni narrative. Nelle discussioni calcistiche esiste un sottogenere a volte definito “football fiction”, dedicato al dibattito su utopie o distopie basate su qualche modifica suggestiva e relativamente verosimile agli avvenimenti storici. Cose come acquisti sfumati, palloni che non entrano in porta e tragedie evitate.
Con la sua triste fine, il Grande Torino ispira le interpretazioni romantiche, ed essendo così vicino nel tempo a quello che è forse l’episodio più celebre della storia dei mondiali, il famoso “maracanazo”, stimola le fantasie. Sull’argomento esistono numerose elegie. Anni fa Enric González ha dedicato all’avvenimento un articolo su El País, intitolato “El día que cambió la historia”, ripensando all’incidente e immaginando un arcobaleno di possibilità. Se il Grande Torino fosse sopravvissuto, secondo il giornalista, non ci sarebbero stati il maracanazo, la futura egemonia brasiliana e juventina, la cultura difensivista e il catenaccio. Un altro calcio, un altro mondo.
Del resto, se partissimo per lo stesso viaggio, probabilmente arriveremo alla stessa destinazione. Gli italiani del Grande Torino sarebbe sfuggiti ai fattori che hanno affondato le altre nazionali europee ai mondiali del Brasile? Qualcuno che non fosse l’Uruguay avrebbe potuto affrontare la finale ufficiosa con qualche possibilità di vincerla? Nel suo interessante libro “La spirale del silenzio“, la politologa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann avanzava l’ipotesi che l’opinione pubblica funzioni come una specie di epidermide della società: sondiamo costantemente il clima intorno a noi per conoscere l’opinione dominante, e questo facilita la coesione sociale. I mass media, l’opinione pubblica e l’ambiente avevano convinto tutti che i brasiliani erano imbattibili?
Ricordava Julio Pérez, membro della nazionale uruguaiana del 1950: “I cronisti si facevano impressionare dalle goleade del Brasile ma non si rendevano conto che gli avversari erano intimiditi. E ne avevano tutti i motivi. Gli spalti, la folla e tutto il resto pesarono sul morale degli spagnoli e degli svedesi, e questo rese possibili le goleade. Ma con noi non ha funzionato. La nostra squadra giocava bene ed era fatta di uomini”. Il suo compagno di squadra Oscar Omar Míguez aggiungeva: “Perché avrebbero dovuto batterci? Chi erano mai? Noi avevamo fiducia. Se si entra in campo suggestionati è peggio. Questo campionato non l’avremmo perso. Era scritto che quel giorno avremmo vinto. Non avevamo paura né di dio né del diavolo. Se Máspoli avesse giocato in attacco avrebbe segnato due gol, e se io avessi giocato in porta avrei parato due rigori”.
Entrambi i giocatori sottolineano lo stesso tema. “Nel calcio la cosa più pericolosa è la paura”, ha detto saggiamente Carlo Ancelotti. Di cosa avevano paura gli europei? Non solo del calcio mulatto, a proposito del quale un quotidiano romano titolava schiettamente “Come resistere?” di fronte a un gioco così elaborato e devastante? Inoltre l’ambiente era condizionato dal contesto. L’entusiasmo dei brasiliani aveva trasformato l’ottimismo in fanatismo.
Il calciatore svedese Skoglund disse a proposito della sua partita contro il Brasile: “Ogni volta che toccavo il pallone mi esplodevano intorno i petardi: era come un campo minato”. La seconda guerra mondiale e la guerra civile spagnola erano finite da poco, e i giocatori avevano vissuto quei conflitti in prima persona. Il pubblico brasiliano aveva ravvivato lo stress postraumatico negli europei? L’ambiente aveva prodotto una connessione emotiva con i ricordi di guerra ancora freschi, diminuendo così la competitività dei calciatori? Skoglund identifica i petardi con le mine e gli uruguaiani suggeriscono che il tifo abbia intimidito le altre squadre. Avevano appena vissuto una lunghissima guerra e forse quell’ambiente li terrorizzò. Ma l’Uruguay non aveva partecipato a nessun conflitto e le famose parole di Obdulio e Schubert Gambetta riuscirono ad alleviare qualunque paura da palcoscenico. Un ipotetico Grande Torino avrebbe affrontato il torneo nelle stesse condizioni psicologiche degli svedesi e degli spagnoli.
Dato che apparteniamo a “una cultura funeraria, in cui il rispetto è riservato ai cadaveri”, come scrive Antonio Escohotado, è stato omesso alla posterità qualunque dettaglio che potesse far pensare a una mancanza di rispetto alle vittime di Superga. Nel decennio precedente la tragedia il calcio italiano era stato scosso da un’aspra diatriba tra sistemi di gioco (sistemisti contro metodisti), e nella sua doppia veste di club e spina dorsale della nazionale italiana il Torino fu un campo di battaglia di quel dibattito. Nessuno dubitava delle qualità individuali dei giocatori. Il più prestigioso giornalista sportivo italiano di quei tempi, Gianni Brera, sosteneva che c’erano non meno di undici elementi di assoluto valore internazionale in quella squadra e che i diciotto morti erano tra i migliori atleti della storia del calcio italiano. Le critiche si concentravano piuttosto sul modo in cui questo straordinario materiale umano era impiegato a livello tecnico.
Durante la guerra Novo e Pozzo avevano lavorato per riunire la maggior parte del talento disponibile in una sola squadra, in modo da facilitare il lavoro del commissario tecnico, avvalendosi “degli esoneri militari e delle ambizioni alla maglia azzurra” scriveva Gianni Brera. Pozzo raccomandava ai giocatori più brillanti di trasferirsi in Piemonte per stare più vicini a lui e il presidente Novo si appoggiò alla Fiat e alla sua enorme influenza per mantenere i giocatori, in teoria assunti come operai, lontani dal servizio militare.
Un anno prima dell’incidente si giocò la partita internazionale che fu considerata la Waterloo del Torino. Pozzo aveva rotto i rapporti con Novo a causa – tra le altre cose – dell’adozione dello schema detto del WM(un 3-2-2-3) da parte del Torino. Quel giorno si festeggiava il cinquantesimo anniversario della federazione italiana (16 maggio 1948) e il ct convocò per l’amichevole contro l’Inghilterra tutta l’ossatura della squadra campione d’Italia, schierandola col WM come voleva gran parte della stampa sportiva. La nazionale fu umiliata 4-0 e il vecchio tecnico, assai colpito dal risultato e disgustato dalle accuse di essere ormai superato, finì per essere esonerato dopo il fallimento alle olimpiadi dello stesso anno a Londra.
Lo stesso Ferruccio Novo lo sostituì come commissario tecnico, coadiuvato per i mondiali dal giornalista toscano Aldo Bardelli. La formazione rimase inalterata. In seguito Bardelli e molti giocatori si rifiutarono di andare in Brasile in aereo, preferendo una traversata di quasi venti giorni che ne pregiudicò le condizioni atletiche e propiziò la deludente prestazione ai mondiali.
Certamente se non ci fosse stato l’incidente gli azzurri si sarebbero risparmiati l’interminabile viaggio per mare – durante la quale per un inquietante presagio tutti i palloni caddero nell’oceano. Ma la sconfitta con l’Inghilterra non può spiegarsi solo con la classe degli avversari né con la stanchezza dei torinesi a quel punto della stagione. Un dato chiarificatore è che, solo due anni dopo, una nazionale inglese composta quasi dagli stessi giocatori sarebbe stata battuta dalla Spagna e dagli Stati Uniti ai mondiali del ’50. In ogni caso la sconfitta rafforzò i dubbi etnologici sull’opportunità che un sistema di gioco pensato per i “forzuti” inglesi fosse adottato dagli “striminziti” italiani.
Dicono che l’ungherese “Egri” Erbstein, consigliere tattico del Torino, aveva cominciato a nutrire dubbi sulla convenienza di continuare a scommettere sul WM prima dell’incidente di Superga e forse avrebbe apportato dei cambiamenti nell’anno precedente il torneo. Ma il Torino vinceva e dava spettacolo nel campionato italiano, il che rendeva difficile immaginare una rivoluzione tattica. Inoltre ancora negli anni cinquanta si continuava a citare l’efficacia e la prestanza del suo “quadrilatero” come esempio della bontà del “sistema”. Difficile concepire un cambiamento di fronte alle bastonate che tecnici come Barbieri con il “suo mezzo sistema” e Alfredo Mazzoni del modesto Modena stavano prendendo nel torneo.
I quattro gol incassati contro la Svizzera a Zurigo nel 1945 e i cinque contro l’Austria al Prater nel 1947 dimostravano che col WM l’Italia era un colabrodo. Critiche simili erano state rivolte agli svedesi e agli spagnoli durante la finale quadrangolare del mondiale brasiliano. L’unica squadra che tenne testa ai padroni di casa era disposta con un’organizzazione tatticamente più prudente, condotta con maggior astuzia e un dispiego di energie fisiche molto più ridotto rispetto a quello richiesto dal WM. Brera parlò di “cicale contro formiche” e coltivò nel ricordo lo spirito del difensivismo.
La formazione iniziale dell’Uruguay ricordava la classica piramide del River Plate (2-3-5), ma il difensore centrale Matias Gonzalez si sistemò qualche passo più indietro rispetto al suo compagno di reparto Eusebio Tejera, i centrocampisti laterali (Gambetta e Andrade) marcavano gli esterni (Chico e Friaça) e il centromediano e i due interni uruguaiani retrocessero rispetto alla loro posizione abituale, cosicché la squadra prese la forma di un 1-3-3-3 molto simile a quello usato da Rappan in Svizzera, con cui la stessa nazionale era riuscita a pareggiare con il Brasile durante lo stesso torneo del 1950.
E fu così che la grande epopea uruguaiana finì per servire da matrice poetica al catenaccio.