Gruppo C: Scozia

Gruppo C: Scozia
16 Marzo 2016 Gabriele Crescente


11.06.1990
Genova, 30mila spettatori
Costa Rica – Scozia 1-0

16.06.1990
Genova, 31mila spettatori
Svezia – Scozia 1-2

20.06.1990
Torino, 62mila spettatori
Brasile – Scozia 1-0

Ieri

È difficile e forse privo di senso cercare nell’organico della Scozia che scende in campo nel mondiale italiano un valore aggiunto, un raggio di sole che illumini con grazia una spiaggia di sassolini pressoché identici. Una truppa esperta, questo sì, un contingente di giocatori al secondo mondiale di seguito, alcuni addirittura al terzo, una marmaglia di vecchie guardie, capitanate da un terzino volante, un rinnegato di nome Roy Aitken, che gioca nel Newcastle privato del talento di Waddle e Gascoigne e finito nel baratro della seconda divisione, in Inghilterra.

Apparentemente sfrontata in attacco, vive degli scatti improvvisi del rosso malpelo Stuart McCall, sulla generosità di un onesto ma non proprio letale attaccante come Maurice Johnston, appena definito Giuda dai suoi ex tifosi del Celtic per essere passato al Rangers di Glasgow (e odiato discretamente anche dai nuovi tifosi), e in generale su un nugolo di uomini rozzi, semplici, che la buttano sul solido e nelle taverne si vantano di essere tipi che menano le mani e danno battaglia. A guardarli schierati uno di fianco all’altro, senza alcun pensiero in testa, un po’ si trema e un po’ si spera connotando questa truppa con la parola “esperienza”.

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La truppa si rivela presto ferraglia. Contro il Costarica, basta una finta a velocità ridotta di Hector Marchena, un goffo colpo di tacco indisturbato al rallentatore di Claudio Jara all’altezza del dischetto del rigore, le braccia alzate di un rientrante Stewart McKimmie che urla ai suoi compagni di reparto, ancora sporchi di sangue e di grasso di cervo, che dietro di lui c’è un altro nemico, uno da solo, che lui non può pensare a due persone, che qualche schema sta saltando, che la principessa è in pericolo, che la patria chiama alle armi, ma con più solerzia, che l’ala è sguarnita, che lui è l’ultimo ed è rientrato faticosamente e non è ammissibile che in piena area di rigore tutti siano fermi con le armi in mano e gli occhi nel vuoto. Ma mentre le braccia di McKimmie comunicano quest’eccesso di informazioni, l’uomo costaricano, come l’autore di una hit musicale che non si ripeterà, supera con classe immensa Jim Leighton in banale uscita. Basta questo e la Scozia, di fatto, saluta il torneo.

Tutto assume un contorno sinistro. Da generoso, Johnston diventa capriccioso e testardo, mentre continua a buttarsi per terra in area di rigore nel tentativo, per lui vano, di correggere in rete cross, traiettorie, palle vaganti; da statuario passa a malinconico, invece, McInally, gigante reso teutonico e insensibile dalla vita da forestiero al Bayern Monaco, mentre come una molla salta più in alto di tutti e sgonfia il pallone e se stesso ben oltre la traversa. Non vedrà più il campo.

I nomi dei costaricani sono riassunti nel portiere Conejo. La truppa scozzese è diventata un esercito di pentolame, che perde pezzi al primo attacco subito ma tenta, ferita e disorientata, di caricare pesantemente una banda di conigli, docili, rapidi, scaltri, che dispensano invece ampi sorrisi e occhi pieni di perdono.

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Seguono centottanta minuti contro Svezia e Brasile in cui il ct. Roxburgh, uno dei (troppi) maestri di Josè Mourinho, vecchio saggio della federazione Scozzese, degno generale di questo esercito improvvisato, mescola le carte, cambia i soldati semplici, senza quasi mai togliere gli scalcinati luogotenenti che (mai) fecero l’impresa. Ma ha la sagacia di non rinunciare a McCall e Aitken che regalano, il primo con una scivolata letale in mischia e il secondo con un esaltante e folle volo in contropiede nell’area di rigore svedese che produce un rigore trasformato da Johnston, la prima e unica vittoria scozzese in terra italiana, un successo peraltro messo ripetutamente in discussione dal talento di Brolin che alimenta la reazione, da un gol bellissimo di Stromberg che sprona alla rimonta e dalla superficialità canaglia di Johnny Ekstrom che la vanifica.

Infine il Brasile, che Lazaroni affida per l’ultima ininfluente partita del girone a un giovane attaccante del Psv, Romario, è l’avversario ideale per consentire a questo spento esercito di fanfaroni un’uscita sgangherata e intollerabilmente rumorosa.

La cronaca è secca come le rughe di Roxburgh: il portiere Leighton non trattiene una conclusione di Alemão, la palla danza come al solito indisturbata in area di rigore mentre il clangore delle cosce metalliche di Malpas e compagni cerca disperatamente di raggiungerla, ma è Careca naturalmente che la tocca prima di tutti, con la precisa e frettolosa delicatezza con cui si toglie un capello altrui dalla propria giacca.

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Gli occhi da civetta di Roxburgh percepiscono dalla panchina che la traiettoria del pallone sfiorato da Careca è un po’ larga, ma non fa in tempo ad allargare gli angoli cattivi delle labbra che la corsa equina di Müller, subentrato a Romario, il quale avrà altre chance in ben altri mondiali, garantisce allo sforzo del compagno di reparto una degna conclusione, correggendo in rete quello che le leggi fisiche rischiavano di far passare per semplice pericolo. Uno a zero per il Brasile e al triplice fischio il campo è pieno di abiti strappati, scarne pecore allo stato brado, legna bruciata, piatti rotti, ruote di carro divelte, avanzi di cibo rosicchiati da topi e conigli selvatici, come se un esercito, ma piccolo e disorganizzato, avesse abbandonato con piacere la battaglia in fretta e furia per concedersi alle taverne, ai ricordi e ai racconti, spesso ingigantiti e mistificati, certo più rassicuranti della metallica realtà.

Oggi

Un treno corre silenzioso e anonimo nel freddo Nord. Corre da più di trent’anni ormai.
Un uomo sulla cinquantina con i capelli rossi ha una colluttazione con il capotreno. Ha un biglietto sbagliato, il capotreno vuole fargli pagare un supplemento piuttosto caro anche per le sue tasche. A nulla vale urlare il proprio nome, paonazzo, quando il pubblico ufficiale ha ragione ed è piuttosto disinteressato nei confronti del calcio. Stuart McCall viene tradotto in cella con le accuse infamanti di molestie ed ubriachezza. La seconda viene rispedita al mittente, lui sostiene di essere stato sobrio, sempre troppo sobrio, ma si sa che il tempo è impietoso e trasforma in capi d’accusa le bonarie leggende giovanili.

McCall è sempre quel McCall celebre per essere caduto dal tetto di una macchina, completamente ubriaco, dopo una promozione del Bradford City in Premier League, quando ancora era sportivo, figuriamoci ora. Poi, con quella faccia, quegli occhi porcini, i capelli rossi.

Eppure McCall, l’unico Fratello di Valderrama scozzese ad aver realizzato un gol su azione, negli anni ha dimostrato di essere sempre sul pezzo, nel vivo del calcio, fa da assistente a Gordon Strachan per la nazionale, ma quando i Rangers in caduta libera in seconda divisione lo chiamano nel 2015 per raggiungere in corsa i playoff, lui non esita, parte in contropiede, arriva a due passi dall’obiettivo, poi scivola sul tetto della macchina dell’altra decaduta Motherwell, squadra che lui stesso aveva allenato e costruito per ben quattro stagioni portandola fino ai preliminari di Champions, e crolla pesantemente per terra. Licenziato. Sostituito. Non è pentito, lo rifarebbe, i Rangers si sono comportati benissimo con lui. Sono stati onesti, lui ha dato tutto quello che poteva, non è felice di essere già stato allontanato, augura il meglio al suo successore, aggiungendo che certo non potrà fallire, con quell’organico, quelle responsabilità, quelle pressioni, quella piazza. McCall è contento al 99%.  Ora rilascia dichiarazioni, parla, discute, litiga. Incarna la bellezza e il fallimento rubicondo dei Fratelli di Valderrama sani, costruttivi, che hanno ancora voglia di rovesciare i tavoli quando non sanno romperli con i pugni chiusi e, nel buio commovente di coperte troppo corte e troppo calde, coltivano innocenti e incontrollabili sogni di gloria.

E come McCall, tra domeniche di pareti che si restringono asfissianti e altre, assai più rare, di tettucci apribili sotto cieli senza pioggia, ci sono Craig Levein, che nel corso della carriera si è seduto persino sulla panchina della nazionale scozzese ma è ritenuto in base ai risultati uno dei peggiori ct della storia. Poi si è ricostruito un lavoro, da solo, chino sulle sue ginocchia e ora, da direttore sportivo degli Hearts of Midlothian, ha tirato fuori una squadra dal pantano della bancarotta e le ha fatto vincere una piccola coppa di lega.

E c’è il serissimo Alex McLeish, che invece ha avuto chance da allenatore in Belgio, e il Genk non è proprio una squadra tra le peggiori di quel campionato. E ci sarebbe Gordon Durie, se non fosse per quella strana malattia che gli impedì di completare la stagione in una piccola squadra di divisioni minori scozzesi.

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Al limite tra la panchina e la disoccupazione c’è Malpas, uno tra i più autorevoli esponenti della vecchia ferraglia messa in vetrina a Italia ’90. A soli cinquantadue anni è riuscito  a passare per un allenatore anziano. Si lamenta, litiga, è costantemente preoccupato di passare per un “Old-school-fashioned”. Le sue dichiarazioni fanno continui riferimenti a come si giocava un tempo e a come tutto invece sia peggiorato oggi: 


When I played the fans used to give you pelters during the games and you might bump into them in the street, but they’d never give you any hassle. Now, before the game is even finished people are criticising. And I can guarantee you that 90 per cent haven’t even been to the game, they’ll have listened to some moron who was at it and didn’t enjoy it. If you say anything back, you get slaughtered, if you don’t say anything you get slaughtered.

Il pensiero di Malpas sul calcio si articola su due importanti assiomi, validissimi in tutto il mondo, da sempre, per qualsiasi cosa, in ogni situazione generica, e leggendoli nessuno potrebbe mai pensare che lui sia davvero un “Old-School-fashioned”:

1) The periphery of the game – in terms of fitness coaches, sports scientists and dieticians – has changed, but the game is still the same. It’s a bit quicker because players are fitter, the balls are lighter and the pitches are better. But we are still coaching players to pass and move and put the ball in the net. That will never change. So when you get hit with these stupid criticisms of being old fashioned, out of touch, or whatever else, it annoys me.

2) A joiner doesn’t do his job well every day. He doesn’t chap every nail correctly every day. A couple get bent and he has to straighten them out. The same is football.

Fossero tutti così. Ma non lo sono. Ci sono ben altre tipologie di Fratelli.

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I Defilati

Sono quelli che scelgono di stare bene per conto loro, capitanati moralmente da Jim Bett, uno degli epurati dopo la disfatta con il Costarica. A dimostrazione del fatto che Bett rinneghi in parte la sua appartenenza ai Fratelli di Valderrama, c’è il fatto che ricordi spesso con più piacere i fatti che precedono Messico ’86, la morte del ct Jock Stein, Davie Cooper, il match decisivo con il Galles, il fallimento di Alex Ferguson. Una letteratura che ignora quella dei Fratelli.

La storia di Bett ci consegna però un’altra versione: in un tempo in cui giocava nel Valur, conobbe un’islandese, se ne innamorò e costruì in quella terra di sentimenti gassificati una famiglia di calciatori. Sarebbero stati la sua evoluzione naturale, avrebbero compreso meglio il calcio moderno e forse gli avrebbero concesso una vecchiaia appagante. Baldur e Calum vengono affidati alle cure dell’Aberdeen dove la voce di Jim Bett risuona ancora stentorea, ma scelgono di rappresentare l’Islanda nelle giovanili e tutto porta a credere che il seme di uno scozzese generi lottatori in ogni terra, per quanto ingrata. Ma i valori dei due ragazzi scendono ben presto. Calum racimola una carriera stentata, senza soddisfazioni, e si ritira. Baldur continua a tenere alta la bandiera dei Bett, ma è una bandiera piccola, che si vede appena se ti avvicini a carponi in un angolo del giardino di casa, brulicante di formiche di inatteso colore vermiglio. E l’Islanda è una terra di amore, non di calcio.

Dietro il vessillo trasparente di Bett, emerge a fatica la voce, intonata, del gigante McInally, sparito quasi del tutto, ma non dai teleschermi:

 

C’è Robert Fleck, fondamentale nell’unica vittoria contro la Svezia, che ha fatto perdere le tracce di sé: nel 2008 qualcuno garantisce di averlo visto insegnare scienze sociali in un liceo di Parkside a Norwich. Ma sono le solite notizie sospirate, masticate, digerite male e poi sputate, la normalità per chi è in cerca dei Fratelli.

Singolare anche il caso del Defilato Murdo MacLeod, tornato prepotentemente visibile in occasione del recente referendum sull’indipendenza della Scozia: lui, da Defilato amante della famiglia, conservatore e sostenitore del “lasciamo tutto com’è”, ha saputo però cogliere la palla al balzo per lanciare nel mondo della politica sua figlia Marina, ancora studente. Il pretesto è la proposta di radunare un arsenale di sottomarini nucleari britannici nelle coste di Argyl and Bute, villaggio in cui i MacLeod si impongono nella campagna elettorale. Marina, bionda, bella, conservatrice, sostiene la necessità di costruire questi sottomarini per due motivi: 1) per dare lavoro ai suoi amici e concittadini; 2) perché la patria deve difendersi. Murdo è stato l’uomo che ha perso i sensi colpito in volto  dalla celebre punizione di Branco.

Racconterà di aver perso per molto tempo la cognizione del tempo, non sapeva verso quale porta attaccare. Non l’ha mai dimenticato, il sempre saldo Murdo MacLeod. Recentemente una troupe giornalistica gli ha proposto un programma per raccontare ai bambini i suoi ricordi di calciatore, lui ha deciso di raccontare ai suoi nipoti proprio quell’episodio, con una pantomima drammatica in cui rivela ai bambini divertiti e atterriti insieme il giorno in cui il nonno smise, per un poco, di pensare. Maestro di amnesie, Defilato ideale, Fratello di Valderrama.

Ci sarebbe anche la conclamata assenza dal mondo della realtà di Paul McStay, detto il Maestro, che non è dato in alcun modo sapere cosa faccia, dove lo faccia e perché, assodato il fatto che abbia sicuramente deliziato i tifosi del Celtic Glasgow con i suoi tocchi così poco scozzesi per più di quindici anni e che la sua scoperta da calciatore sia stata uno dei successi personali dell’asse Roxburgh-Mourinho, se quello che si dice in giro è vero. E non lo è quasi mai.

Ma tra i Defilati spicca infine Bryan Gunn, terzo portiere a Italia ’90. Valderrama, che ha molto a cuore ogni singolo Fratello, ha particolarmente in nota la posizione imbarazzata di Gunn, originario della gelida città costiera di Thurso e divenuto, anche lui, come tutti i suoi compagni da qualche altra parte, “leggenda” al Norwich, in Inghilterra. Qui è nato suo figlio, e non possiamo sapere se Robert Fleck sia stato il suo insegnante, ma quel che è certo è che, precocissimo talento da estremo difensore, al contrario della prole islandese di Bett, il giovanissimo Gunn jr. ha conquistato la gloria del Manchester City, un contratto di cinque anni e il suo futuro sembra quello della nazionale inglese.

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Il papà Bryan, con l’occhio dilatato di chi potrebbe aver ucciso in gioventù, ma ora è estremamente calmo e rilassato, dice che comunque tutta la famiglia da Thurso a Norwich tifa per i Gunn in generale, anche per quelli che fanno altri lavori. Sollecitato dai sempre pungenti giornalisti, confida in un divertente ma rispettoso 0-0 nel prossimo scontro tra Inghilterra e Scozia alle qualificazioni per i mondiali. Come se fosse certo che suo figlio sarà in porta. Defilatissimo, ma Fratello di Valderrama, Bryan Gunn.

Gli Esuli d’oro

Meritano un passaggio speciale gli Esuli d’oro. Che sono due, poi e per nulla casuali: l’ex ct Andy Roxburgh e l’ex capitano Roy Aitken. Sono i due Marco Polo che hanno conquistato l’Asia. Il primo dopo una secolare, quasi millenaria esperienza in Uefa e nel New England Revolution di Thierry Henry, a settantuno anni è tra i massimi dirigenti della Federazione Calcio dell’Asia, chiamato ad invertire la rotta delle nazionali asiatiche dopo il fallimento espresso nell’ultimo mondiale. Il secondo, detto The Rover, arrivò all’Al Ahli, negli Emirati Arabi, come assistente di un allenatore che poco dopo è stato licenziato: ma lo sceicco Hamdan bin Mohammed bin Rashid Al Maktoum, principe di Dubai e massimo finanziatore del club, gli chiese di restare come direttore sportivo. In pochi anni l’Al Ahli arriva in finale di Champions League Asiatica, perdendo solo con il Guangzhou Evergrande.

Aitken sostiene che sono tantissimi gli allenatori scozzesi, anche suoi ex compagni di squadra, che gli chiedono di trovare loro un contratto negli Emirati Arabi, anche se pubblicamente nessuno vorrebbe lasciare la vecchia Europa. Che sia vero o meno, di certo Aitken è rimasto impressionato da una cosa nella sua permanenza a Dubai: poter festeggiare le vittorie con il pullman scoperto senza rischiare di essere bagnati dalla pioggia. Il suo sogno e quello di sua moglie Jane è quello di tornare a casa. Ma ancora non è tempo. Quando avranno abbastanza soldi, i Fratelli Esuli d’oro torneranno pure ai loro temporali.

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Ally McCoist

È un Fratello di Valderrama, ma Roxburgh gli concesse solo uno spezzone di partita contro il Brasile. Ally McCoist è uno dei rari esempi di giocatori che cominciano a lavorare come telecronisti in tv mentre ancora sono in attività. È telegenico, è magnetico, simpatico, estroverso, estroso, raccoglie con un sorriso da canaglia buona tutti gli aggettivi che rientrano nell’insieme delle persone che piacciono.

Ha interpretato anche un film da protagonista. L’ultimo copione che ha interpretato è stato quello del salvatore della patria ai Glasgow Rangers: aveva lo stadio ai suoi piedi, da allenatore aveva riportato la speranza dopo il fondo del barile. Poi qualcosa è andato storto, ha annunciato l’addio, sembrava che la Scozia si fermasse e mentre tutti erano pronti a coprirsi il capo di cenere e piangere per la favola terminata bruscamente, il calcio ha ripreso i suoi giri, le sue corse e McCoist torna a parlare in tv e a dire la sua, esattamente come sempre. Lui è sempre come se non fosse successo niente.

Un aneddoto lo si può raccontare. Lo ha raccontato Murdo MacLeod: prima della punizione di Branco, Ally McCoist che aveva già visto un tiro del brasiliano distruggere la coscia di Mo Johnston, chiede a Mighty Murdo Macleod di prendere il suo posto in barriera. Poi arriva la detta devastazione della testa di MacLeod. Negli spogliatoi, Ally McCoist gli dirà ”Poteva andare peggio. Potevo esserci io”.

Gli Ambasciatori

Sono l’ultima categoria dei Fratelli, che non hanno ricevuto il talento del coach o del dirigente ma non vogliono assolutamente che si smetta di parlare di loro. Sono Ambasciatori dei club.
Camminano a testa altissima, sembra che abbiano moltissime cose da fare, non fanno mai mancare le loro presenze nelle fotografie degli eventi mondani dei loro club d’appartenenza, ma soprattutto hanno una identificazione capricciosa, quasi disperata, con i loro tifosi e, pur di avere un lavoro prestigioso da offrire alle amiche delle proprie mogli sono disposti a ogni incarico di rappresentanza.

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Gary McAllister è l’esempio più recente di una lenta trasformazione in Ambasciatore: dopo una discreta carriera come allenatore nel Coventry e nel Leeds, comincia una seconda vita come vice di Houllier, di Strachan e infine di Brendan Rodgers nel disastroso Liverpool pre-Klopp. McAllister viene sollevato dall’incarico come tutti i collaboratori di Rodgers, ma con una differenza: a lui viene proposto un incarico come Ambasciatore del Liverpool nel mondo. In un istante McAllister si toglie la tuta, si annoda una cravatta e sale nel suo ufficio con planisfero e nuovi continenti da esplorare.

Gough per i tifosi dei Glasgow Rangers ha fatto da supporto per i miliardi di Dave King, magnate sudafricano (lo stesso Gough ha trascorso la sua infanzia in Sudafrica) con un capitale stimato di 930 milioni di dollari e numerose condanne per reati fiscali: naturalmente, anche per lui in cambio c’è l’ambita poltrona di Ambasciatore dei Rangers nel mondo.

C’è ancora un ultimo Ambasciatore, ma per lui, è bene cambiare registro ed infilarsi subito in macchina.

Epilogo

Un traffico regolare, ordinato, banale non impedisce ai due Andy Goram di guidare con nervosismo lungo la A11 Dumfries che collega Dumfermline a Dalbettie. Il termine Dun che fa da prefisso a molti toponimi non solo scozzesi sta per “forte” e si può tradurre con “fortezza”, vestigia di una sapienza architettonica antichissima e gloriosa oggi materia di studio e di stupore per addetti ai lavori e turisti. Ma non per i due Andy Goram.

La loro macchina viene sospinta da voci dentro e fuori dal finestrino, da quattro piedi che spingono sull’acceleratore, a turno, con lucidità da persona responsabile e quel pizzico di avventura di cui hanno bisogno gli atleti e gli sportivi quando non fanno sport. I due Goram hanno senza dubbio bisogno di emozioni, lo si vede scritto nei solchi del loro viso, così uguale, così vissuto e così impossibile da connotare con l’aggettivo bello. E hanno bisogno di soldi. Un bisogno necessario, non disperato, ma insomma uno di quei bisogni che richiama all’ordine entrambi. Uno di loro ha un lavoro per conto della vecchia squadra in cui ricopriva il ruolo di portiere, i Rangers di Glasgow: una sorta di ambasciatore, incaricato di presenziare agli eventi benefici, per intrecciare la memoria del club alla realtà sociale. Chi meglio di uno dei due Andy Goram. L’altro, ovviamente, non è particolarmente entusiasta del genere di lavoro che questo ultracinquantenne si è trovato nel terzo millennio. Uno con la sua esperienza, con la sua carriera, non poteva pretendere di più? Se non una panchina, troppe pressioni per Andy, almeno un ruolo come preparatore.

Tutti gli altri vecchi portieri più o meno riescono a ottenerlo una volta nella vita, magari in nazionale. Poco lavoro, discrete pressioni, ma grande onore. Forse che all’Andy Goram che tiene sempre il piede sul freno non interessi tutto questo clamore su di sé. È stato un Fratello di Valderrama così schivo, Andy, in panchina a Italia ’90, mentre Jim Leighton gli aveva rubato la scena. Come nel 1986, peraltro. In Spagna nell’82 Leighton c’era già, anche se in panchina. E visto che nel mondiale americano del ’94 la Scozia non si è qualificata alle fasi finali, bisogna andare direttamente a Francia ’98 per vedere ancora una volta Jim Leighton convocato. Spagna ’82, Messico ’86, Italia ’90 e Francia ’98. Per Goram nessun minuto nel mondiale. Numero due in nazionale, ma numero uno nelle squadre di club in cui ha giocato, venerato, soprannominato “The Goalie”, il Portiere. Mai un chiarimento con Leighton, mai una lite. Eppure erano in due, potevano avere la meglio. Ma non sono sempre stati in due. Goram sa che l’altro Goram è comparso un po’ più tardi, diagnosticato da uno staff medico un po’ pettegolo, ripetuto in coro dal pubblico, da due pubblici, poi quattro, poi molti, sempre a multipli di due.

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I Goram non sanno nemmeno cos’è il fastidio, immortalati per sempre in quella smorfia disgustata e ottusa che la natura dona alle persone che somigliano ai sassi delle montagne disertate anche dagli scalatori più esperti. Eppure, per quanto quella forma di schizofrenia sia stata sempre considerata lieve, e forse per questo bonariamente presa in giro dal mondo del calcio, sempre sensibile alle minoranze e alle fragilità, fermarsi in un bar, sentirsi riconosciuto da un perdigiorno con il cellulare e ascoltare quella canzone che nella propria testa è più forte della sigla della Champions, più forte delle feste per i titoli vinti, più forte, più presente, più costante dell’inno nazionale, sentirla dilaniata in un urlo incastrato in una risata da uno sconosciuto, come le stalattiti mostruose di una grotta mai vista prima, con la stima e lo scherno insieme, che sono la vigorosa stretta di mano dopo essersela passata sugli angoli della bocca, questo i due Goram non lo trovano divertente.

Ascoltare quella canzone, che continua a ritrarre insieme i Goram come se fossero due e come se non li vedesse solo lui, sarebbe certamente un motivo per chiunque per schiacciare un po’ di più l’acceleratore, 15 chilometri in più dei 30 consentiti, non così tanto insomma. Perché uno schiaccia e uno frena, uno va e l’altro si ferma. E Leighton gioca tutti i mondiali che vuole. L’avvocato dei Goram, alla corte di Dumfries, fortezza di giustizia, che punisce severamente chi perde tutti i punti sulla licenza di guida, allude alla necessità di uno dei due Goram di dover utilizzare la patente, nella speranza che non sia ritirata per quest’ennesimo eccesso di velocità. Come può Andy Goram adempiere ai propri doveri nei confronti del Rangers Glasgow e della società, se gli togliete la patente?

Alla fine vincono tutti. L’avvocato viene pagato, la giustizia trionfa, un Andy Goram perde la patente, l’altro si rimette in macchina nel traffico silenzioso e rumoroso della A11 per Dalbettie per cercare di nuovo quel bar, la risata, l’orrore e, forse, se l’altro Goram è d’accordo, la vendetta. Ma tanto non saranno mai d’accordo loro due. Uno schiaccia, uno frena.

Two Andy Gorams, there’s only two Andy Gorams