I sei fantasmi di Giuliano Giuliani

I sei fantasmi di Giuliano Giuliani
23 Gennaio 2015 Federico Ferrone

Quando alla scuola calcio ti affibbiano il ruolo di portiere ti insegnano che più della velocità di coordinazione e più della tecnica vale l’unica cosa che non ti possono insegnare: la capacità di valutare il rischio e di calcolare in una frazione di secondo distanza, velocità e traiettoria del pallone. La fiducia che ogni difensore ripone nel proprio portiere si basa sull’applicazione di tale capacità. La compattezza del reparto arretrato non è mai demandata alla disciplina tattica dei soli due centrali: il centro di qualsiasi (re)azione difensiva è la geometria variabile elaborata da interditori e portiere. In sostanza, il portiere è un esperto inconsapevole di fisica, psicologia e tattica. Paradosso epistemologico vivente, il portiere perfetto dovrebbe istintivamente applicare conoscenze che non sa neanche di avere. Almeno in teoria. Perché, spesso, quello che ti dicono alla scuola calcio è inutile. Perché, spesso, quello che ti insegnano è solo la cristallizzazione di una convinzione già superata.

Giuliano Giuliani non fu mai un portiere eccezionale. E non perché non ne avesse le necessarie doti istintive. Era un giocatore diligente che sapeva trasmettere sicurezza ai propri difensori, e non a caso è uno dei portieri meno battuti della storia del campionato italiano. Se si osservano le statistiche si può notare che dal suo anno di arrivo a Verona fino all’ultima stagione a Udine, Giuliani tenne una media di meno di un gol incassato a partita. Questo, però, non fu mai sufficiente. A Napoli i tifosi ripetevano spesso che la sua migliore dote era quella di avere una bella moglie, l’ex soubrette Raffaella Del Rosario. Anche le apparizioni in nazionale furono sporadiche. Giuliani riuscì a farsi convocare come dodicesimo nella Nazionale Olimpica del 1988, e questa fu la sua massima soddisfazione. La diarchia Zenga-Tacconi, uno dei fuochi del dibattito sulla nazionale maggiore di quel periodo, non gli permise mai nemmeno di illudersi. Nel 1992, quando Sacchi subentrò a Vicini e decise di rinunciare a Zenga, Giuliani non faceva già più parte del giro che conta. Ceduto nel 1990 dal Napoli delle meraviglie all’Udinese, capì ben presto che il viaggio in Friuli era di sola andata: la sua carriera terminò qui nel giugno del 1993.

Giuliani CloseUp

Davanti a Giuliano Giuliani ci fu sempre qualcuno. La sua storia appare così come una storia di fantasmi, di ombre che lo inseguono fino a quel giorno di novembre del 1996, fino a quel letto del reparto infettivi del Sant’Orsola di Bologna. Ombre e fantasmi che lo accompagnano fin dal suo arrivo a Verona, nel 1985, e che non gli danno tregua neanche quando vince col Napoli uno scudetto e una coppa UEFA. Ombre che si fanno più dense tra il 1993 e il 1996, quando la vita di Giuliani cambia radicalmente, e non in meglio. L’addio al calcio è effetto non solo di un infortunio, ma anche di un arresto che gli viene notificato alla fine della stagione 1992/1993. Giuliani sta tornando a casa, a Udine. Ad aspettarlo trova una pattuglia di poliziotti che lo conduce direttamente in carcere. L’accusa: possesso di cocaina finalizzata allo spaccio, reato da cui sarà successivamente scagionato. Ma non c’è solo questo. Col passare del tempo la salute peggiora. Qualcuno si lascia andare a qualche commento di troppo, pronunciando quella parola a quattro lettere, AIDS, che è tabù. L’AIDS è una roba da finocchi e da tossici, e nel calcio non ci sono né finocchi né tossici. E poi una cosa del genere non può capitare a una persona così schiva e riservata come Giuliani. È colpa di qualcosa o di qualcuno che non c’entra con il suo mondo. Magari è successo durante il matrimonio in Argentina del genio maledetto del Napoli degli scudetti, Diego Armando Maradona. L’analisi delle responsabilità potrebbe portare a catene causali chilometriche. Ma in fondo non servirebbe a nulla. In un giorno anonimo di un mese anonimo Giuliani è in quel letto, con i suoi fantasmi che gli fanno visita per l’ultima volta.

Il primo a comparire, forse, è quello di Garella. Il rapporto fra i due è caratterizzato da una strana coincidenza: per tre volte, a Verona, a Napoli e a Udine, Giuliani prese il posto di Garella. Mai termini di riferimento furono così distanti. Garella era un portiere dalla muscolatura esplosiva. Robusto e non troppo alto, riusciva a essere agile pur non adottando uno stile di gioco particolarmente elegante. Era il portiere delle parate insperate e degli errori colossali, un giocatore eccessivo, più bravo con i piedi che con le mani, come diceva l’avvocato Agnelli. Giuliani ne era il contrappasso: molto misurato, al contrario di Garella sapeva calcolare istintivamente i tempi delle uscite e trovare sempre la posizione corretta in cui effettuare la parata. Senza gesti spettacolari, senza richiamare su di sé l’attenzione.

D’altra parte la spettacolarità era il tratto caratterizzante anche dello stile dei due diarchi, Zenga e Tacconi. Pur avendo due stili gioco diversi, i portieri di Inter e Juventus rappresentarono due lati della medesima moneta, figure di transizione dalla classicità alla modernità calcistica. Se, da un lato nessuno dei due sapeva giocare con i piedi in maniera ineccepibile, era impeccabile nelle uscite (soprattutto Zenga) e riusciva ad agire come difensore arretrato, dall’altro è innegabile che nel concepire il proprio ruolo innanzitutto in funzione dello spettacolo Zenga e Tacconi proponessero linee d’azione analoghe. Il portiere dell’Inter era più portato a mettere in evidenza le proprie doti plastiche nella difesa del perimetro della porta, mentre quello della Juventus, giocando con il baricentro sempre spostato in avanti, agiva al limite dell’area piccola e lì effettuava i suoi voli più acrobatici. E poi c’era la questione della costruzione della propria immagine: Zenga tendeva a mostrarsi sempre sicuro di sé, se non strafottente; Tacconi, con il baffo alla Tom Selleck, era il prototipo del giocatore prestante, adatto a giocare in una squadra di serie A e a sfilare per Armani. Giuliani era ai loro antipodi: dall’aspetto dimesso, concepiva il proprio ruolo semplicemente come servizio alla difesa. Non era sprovvisto dell’istinto della parata: aveva semplicemente un carattere meno estroverso, che lo portava a interpretare le proprie funzioni senza indulgere a quegli elementi che erano diventati focali durante la mutazione genetica del calcio italiano, tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta.

Ma di fianco al letto, a quel letto, non ci sono solo portieri. Perché i fantasmi non sono solo quelli che hanno più fortuna di te, quelli che, pur non essendo più bravi, riescono a sfruttare meglio le doti che il dio della porta ha dato loro, quelli che insomma assecondano naturalmente ciò che il pubblico e gli allenatori chiedono. I fantasmi sono anche quelli con cui hai lottato e con cui, per un istante, ti sembra di condividere un legame destinato a diventare parte della memoria di tutti i calciofili. Falso, come gli insegnamenti delle scuole calcio. In un’intervista rilasciata poco dopo la morte di Giuliani, Ciro Ferrara disse che lo aveva visto un giorno, quasi per caso, e che non si era avvicinato. Era molto cambiato: la malattia ne aveva mutato completamente la fisionomia. Ferrara affermò anche che l’ultimo ad averlo visto, qualche settimana prima, era stato Alessandro Renica, altro difensore del Napoli di fine anni Ottanta, che era rimasto colpito dal peggioramento delle sue condizioni. A queste testimonianze si aggiunsero presto quelle di Giancarlo Corradini, centrale del Napoli che intervistato dal Corriere fu uno dei primi a parlare in maniera più esplicita della malattia di Giuliani. Renica e Corradini, centrali difensivi del Napoli che giocò la finale di coppa UEFA e vinse il trofeo, giocatori che insieme a Giuliani avevano reso il reparto arretrato della squadra partenopea il migliore di quel periodo. Eppure difficilmente ci si ricorda di loro. Perché l’oro di quel Napoli era la meravigliosa triade Alemão-Maradona-Careca e non Giuliani-Renica-Corradini. Renica e Corradini: gli altri due fantasmi. Eccoli lì, a ricordare a Giuliano, mentre la febbre sale e la vista appanna, che lui non ha passato tutta la carriera all’Arezzo. Che lui ha vinto giocando in una delle squadre più forti del mondo.

Napoli

Giuliani, forse, in quegli istanti, si stupisce di vedere attorno a sé, nel piccolo bunker asettico, così tante persone. Ma rimane ancora più sorpreso quando, tra di loro, vede un volto al contempo familiare ed estraneo. Perché l’immagine di noi stessi è sempre filtrata da uno specchio. Giuliani guarda se stesso e rimane stupito dalla propria doppiezza. Siamo abituati a pensare che, negli ultimi istanti della nostra vita, sia l’anima, l’involucro della nostra interiorità, a separarsi dal corpo. Forse non è così: a staccarsi da noi è l’immagine di noi stessi, quello strato superficiale che ci collega a chi ci conosce e che ci rende riconoscibili. L’ultimo fantasma è proprio questo: l’immagine di Giuliani, il suo doppio. È il simulacro di un uomo timido, a volte scontroso, colpito da un virus che di solito associamo all’estroversione dei caratteri gaudenti. È il simulacro di un giocatore che non viveva per il calcio e che, a differenza di molti altri, sapeva coltivare diversi interessi, prima fra tutti la pittura. È il simulacro di un portiere vincente che non è ricordato per i propri meriti sportivi, ma per la malattia che lo ha ucciso.

Chi menziona mai Giuliani, infatti? Forse chi, a metà degli anni Novanta, ha avuto almeno un compagno di classe che, in preda alle convulsioni glicidiche legate al consumo di Tegolini, abbia fatto finta di aspirare cocaina dalla cannuccia di una Bic e, imitando Tony Montana, abbia gridato: “sto pippando. Ora mi becco l’AIDS e muoio come quello lì, l’aspirapolvere, il portiere del Napoli”. Forse a Giuliani non sarebbe importato se un ragazzino l’avesse nominato solo per evidenziare gli aspetti più controversi della sua vita. Non si sarebbe preoccupato nemmeno di essere ricordato da un mondo, quello del calcio, che in fondo gli aveva sempre preferito qualcun altro. E se fosse stato lì, mentre, durante un’intervista, l’ex moglie Raffaella diceva a un giornalista di Libero che era stato dimenticato perché era morto di AIDS, molto probabilmente avrebbe alzato le spalle, perché lui sapeva come funzionava. Le avrebbe detto che non poteva essere altrimenti. Le avrebbe detto che i giocatori, quelli veri, non muoiono di AIDS.