Il fragore di uno sparo in lontananza si riverbera nell’aria, disperdendosi nel temporale della prima sera di un tiepido gennaio romano, fino a fondersi definitivamente col rumore del traffico cittadino che sale tenue su per la collina Fleming.
All’interno di una gioielleria di via Nitti un uomo dai capelli biondi intrisi di pioggia giace a terra ferito a morte, con le dita rigidamente aggrappate al bavero rialzato della giacca. Gli altri tre uomini presenti sulla scena lo osservano pietrificati per alcuni interminabili secondi. Gli occhi celesti come la maglia che indossa ogni domenica sul campo da gioco cercano dapprima quelli del suo compagno di squadra, che solleva le mani in segno di resa. Quindi vagano in direzione dell’amico profumiere che aveva chiesto loro di accompagnarlo in quel negozio per una consegna, ricambiandone lo sguardo carico di spavento. Infine si posano oltre il bancone, dove la sagoma del gioielliere si staglia immobile in una innaturale posizione di tiro, i cui bolsi contorni evocano l’involontaria parodia di un giustiziere solitario. È l’ultima grottesca immagine che si imprime nella sua memoria morente. La Walther calibro 7.65 del giustiziere improvvisato rimane puntata verso di lui, quasi a volersi sincerare che il morto non scappi, anche se ormai è tragicamente chiaro che il morto in realtà ci sia scappato eccome.
Un tipo nervoso, si dirà del gioielliere: giusto qualche mese addietro aveva subìto una rapina a mano armata poco prima dell’orario di chiusura. Da allora era diventato poco incline all’umorismo, soprattutto sul lavoro, ed era corso subito ai ripari. Aveva blindato l’ingresso, da cui ora era impossibile entrare senza prima suonare e aveva effettuato ripetute sessioni al poligono di tiro. Viveva nella certezza che prima o poi sarebbero tornati a puntargli una pistola in faccia, e non voleva farsi trovare di nuovo inerme, impreparato, in balia completa del destino.
Dai piedi della collina arrivano lontani echi di sirene della polizia. Presto il negozio si affollerà di sbirri e giornalisti con la porchetta tra i denti pronti a sputar sentenze. Occorre pensare in fretta, ma al gioielliere non viene in mente niente. Farfuglia qualcosa per giustificarsi con gli amici del morto, ancora troppo scossi per proferire parola. Era davvero convinto fosse l’ennesima rapina, ripete come parlando tra sé, poi impreca, si dice sicuro di aver visto il biondo mentre stava per estrarre qualcosa dalla tasca e di aver agito di istinto, sparandogli. Forse se lo è solo immaginato e i nervi gli hanno giocato un brutto scherzo. Forse si tratta di un disperato e patetico tentativo di auto-assoluzione.
I due giovani entrati con lui, gli spiega il profumiere che lo frequenta da tempo, non solo non sono rapinatori, ma giocatori di Serie A piuttosto conosciuti. Ma cosa ne poteva sapere? Non ha mica tempo da perdere con il calcio, lui. E poi quei due si muovevano come delinquenti, mezzi imbacuccati com’erano, col bavero alzato e le mani in tasca. “Sono rovinato” si dispera crollando infine sulla sedia. “Trent’anni de galera non me li leva nessuno”.
Il profumiere è ora chino a contemplare il fresco cadavere del biondo, i cui occhi ora più bianchi che celesti rimangono piantati verso l’uscita ormai impossibile da imboccare. Con la punta delle dita ne misura l’assenza di pulsazioni, poi alza lo sguardo sulla vetrina, traboccante di parure, anelli e diamanti. Un’idea gli scintilla improvvisa per la testa. “Na maniera per sarvarti ce sarebbe” butta lì a mezza voce. Poi si rivolge al compagno di squadra del biondo, che lo guarda inebetito senza capire ancora dove voglia andare a parare. “Non vorrai mica mannà ar gabbio un padre de famija? È na brava persona, io lo conosco bene. È stata na disgrazia…”
Di fronte ai cronisti e agli inquirenti il profumiere e il compagno di squadra confermano la versione dei fatti del gioielliere, facendolo assolvere dall’accusa di eccesso colposo di legittima difesa. Uno stupido scherzo finito in tragedia: la stampa ci va a nozze, ricavando titoli moraleggianti da quella storia insanguinata. Su certe cose non si scherza, in fondo se l’è cercata, c’è da capirlo il gioielliere, lasciano intendere molti articoli.
Negli occhi dei compagni di squadra e della gente che affolla il funerale del biondo si legge l’incredulità per tutta la vicenda. Se c’era uno incapace di commettere sciocchezze simili, per indole e per carattere era proprio lui, così schivo e riservato, un “saggio” se confrontato con il resto della sua squadra, quella sì davvero piena di teste calde.
Chissà se il compagno di squadra che era entrato con lui in quella maledetta gioielleria ogni tanto ripensa all’assurda morte del biondo. Lui è rimasto nel calcio che conta per molti anni dopo la fine della carriera e ora siede sulla panchina di una nazionale europea. Una nazionale minore, ma pur sempre una nazionale. Nonostante fosse stato sollecitato più volte a farlo, è sempre stato restio a tornare sul tragico accaduto. Forse per troppo pudore, forse per troppa paura o per troppo rimorso.