Dennis Bergkamp apre gli occhi e non vede niente. Il panico comincia subito a picchiare sulle pareti del suo cervello, così forte che può sentirlo anche attraverso il rivestimento di benzodiazepine. Un attimo prima che la paura si trasformi in un grido d’orrore, Dennis si porta le mani al volto e si accorge che ha ancora sugli occhi la mascherina da viaggio. “Che idiota”, pensa con sollievo. Intorno c’è silenzio e il pavimento sembra immobile. Il sollievo si trasforma in speranza.
Siamo arrivati?
Dennis sente dei passi nel corridoio. Dio, siamo davvero arrivati? Il suo cuore palpita. Si toglie la mascherina e si accorge con terrore che il suo vicino, un arabo del Golfo sulla trentina, è ancora lì seduto e traffica con l’iphone. Ancora non siamo nemmeno partiti.
Dennis si sente stringere la gola. Per un attimo pensa che non riuscirà a resistere all’impulso di liberarsi e provare a forzare il portellone. Meglio adesso che ancora sono fermi, meglio cadere da dieci metri che da diecimila. Poi però pensa ai titoli di giornale, alle battute, sempre le stesse, ancora una volta. Soprattutto pensa al risucchio delle turbine e al fatto che l’uscita è proprio davanti alla bocca del motore numero 2. Ficca una mano nel taschino della giacca, tira fuori la scatola di metallo e s’infila in bocca un’altra pillola. Cos’è che aveva detto il dottore? Venti minuti, trenta minuti? Dennis preme il pulsante di chiamata, cerca di sistemarsi i capelli e di recuperare un’espressione composta. Tanto sanno tutto, è inutile nascondere, dice una voce nella sua testa. Che vuoi che sappia quella, avrà venticinque anni, non era neanche alle elementari, risponde Dennis. La hostess appare quasi immediatamente, “Buongiorno signor Bergkamp, come posso esserle utile?” (Visto?, dice la voce).
“Vorrei un altro whisky se è possibile”, risponde Dennis forzando un sorriso e affrettandosi a coprire con una mano il portapillole rimasto sul tavolinetto. “Certo”, risponde lei, scomparendo con un fruscìo del leggero velo bianco. Dennis osserva la sua uniforme e ripensa a quella strana coincidenza: subito dopo il suo ritiro, il suo stadio ha preso il nome di una compagnia aerea, di questa compagnia.
La ragazza ritorna con un grosso bicchiere e un piatto di stuzzichini. “Manca ancora molto al decollo?”, chiede Dennis cercando di sembrare naturale. “No, soltanto pochi minuti di pazienza. Stiamo aspettando il via libera, c’è un po’ di traffico in pista oggi”. Dennis annuisce e aspetta che la ragazza scompaia di nuovo, poi butta giù metà del bicchiere in un sorso. Un po’ di traffico. Significa che hanno deviato parecchi voli, una delle situazioni più pericolose. È così che è avvenuto il più grave incidente della storia. Tenerife, 27 marzo 1977, 583 morti. E poi perché? C’è stata una perturbazione improvvisa, un’ondata di maltempo, un ciclone? Dennis butta giù anche il resto del whisky. L’arabo lo guarda con disprezzo e sorseggia con ostentata moderazione il suo cocktail analcolico alla frutta. I terroristi non viaggiano in prima classe, pensa Dennis. Io non ho detto niente, risponde la voce nella sua testa.
Dennis accosta la tendina, si butta addosso la coperta e si lascia cadere nella poltrona. L’alcol riattizza subito la vampa di sonno chimico e presto Dennis ritrova una parvenza sfocata di controllo. Ancora questa parola, pensa chiudendo gli occhi. Come se fosse una cosa negativa. Lei è un maniaco del controllo, deve imparare a lasciare andare. Ma come può esserci bellezza senza controllo? Come si può accettare una vita di contrasti e rimpalli? Era così in Inghilterra quando è arrivato lui: palle lunghe, sportellate, azioni stocastiche, tanti contrasti, tanti rimpalli. Che ne sapevano, loro, di cosa significa sapere esattamente dove finirà il pallone prima ancora di sentirlo partire; conoscere in anticipo il suono che produrrà il cuoio del pallone sul cuoio dello scarpino per poi staccarsene delicatamente, restando lì a un passo; sapere con certezza che il difensore proseguirà la sua corsa cieca di corpo inerte, trascinato inesorabilmente dalla sua traiettoria, trascinato lontano dallo spazio tra la palla e la porta, oltre ogni ragionevole possibilità d’intervento; prevedere come e dove, voltandosi, troverà il portiere, congelato in un luogo e in un tempo sbagliati dalla sua incapacità di previsione, dalla sua mancanza d’immaginazione. No, non c’è bellezza senza controllo. Lo sa bene lui, quella sera a Manchester se la ricorderà finché campa. I rigori sono come gli aerei. Prima o poi qualcuno andrà male, non puoi farci niente. L’unica soluzione è non tirarli, e infatti lui non ne ha più tirato neanche uno.
E non ho più preso nemmeno un aereo, pensa Dennis, ormai completamente intorpidito. E questo cos’è, allora, dice la voce nella sua testa. Bergkamp si tira addosso la coperta e si rigira nella poltrona. Non rompere i coglioni, risponde. Sì, è un aereo. Ho preso un aereo. Avevo i miei motivi. E quali sarebbero? continua la voce. Non sono affari tuoi. Ma sai almeno dove stai andando?
Dennis si tira la coperta fin sulla testa e si infila le dita nelle orecchie. Dietro la fronte ha un rombo cupo e continuo, come un lungo tuono distante, come quando si ascolta il rumore delle onde sott’acqua. Si appisola, poi si riscuote, non saprebbe dire quanto tempo dopo. Dal corridoio non viene più nessun rumore. Si affaccia oltre la tendina, ma la poltrona dell’arabo è vuota. Nella fila successiva Dennis nota per la prima volta un uomo dal volto massiccio, con un ridicolo riporto sulla testa pelata, vestito con una tuta di acetato fuori moda da vent’anni. L’uomo legge stancamente un quotidiano, sulla testata gli pare di distinguere la parola “Dallas”. Poi l’uomo si gira lentamente verso di lui. Dennis trattiene il respiro. L’uomo lo guarda dritto negli occhi, come se lo conoscesse. La sua espressione sembra delusa ma rassegnata. “Non è colpa tua. Non dipende tutto da te”, sembra voler dire.
Dennis si ritrae dietro la tendina. Socchiude la tapparella del finestrino e dà un’occhiata fuori. Gli pare di ricordare che quando è salito a bordo era giorno, ma ora le nuvole basse e la nebbia sono illuminate solo dalle luci arancioni dei lampioni del terminal. Più lontano, i puntini rossi che delimitano la pista brillano sinistri fino a perdersi nell’oscurità. Quanto tempo è passato? Perché siamo ancora a terra? Dennis preme di nuovo il pulsante di chiamata, ma stavolta non arriva nessuno. Il segnale di allacciare le cinture si accende per un attimo, poi si spegne di nuovo. Dennis pensa che dovrebbe avere paura, invece ha più che altro sonno. Sprofonda nella poltrona e si lascia avvolgere e trasportare da un fluido tiepido e oscuro, nel quale affiorano piano piano strani relitti baluginanti.
Si vede correre su un’autostrada senza cartelli che attraversa città deserte e montagne altissime e infinite distese di pioggia. Si vede camminare sulla terra rossa di un paese lontano, sotto alberi mai visti, immerso in una luce che sembra zucchero fuso, e domandarsi “Come sono arrivato fin qui?”, e subito dopo “Come farò a tornare indietro?”. Si vede in cima a un’altissima torre di mattoni squassata da un terremoto, vede gli scalini crollare uno a uno sotto i suoi piedi, finché resta solo la fune delle campane che suonano, suonano sempre più forte.
Siamo arrivati?
“Sì mister, stiamo facendo scalo”, risponde il ragazzo accanto a lui. “Cristo quanto mi sono cacato sotto stavolta”, aggiunge. “Quando ci ha preso quella cazzo di ventata mentre toccavamo terra ci sono quasi rimasto secco. Come ha fatto a non accorgersi di niente?”.
Dennis si stropiccia gli occhi e si volta verso il ragazzo sorridendo. Non ha neanche 17 anni, lo ha inserito in lista solo per una serie di infortuni, ma ha deciso di portarlo comunque in questa lunghissima trasferta. Sa che è terrorizzato dagli aerei. Sa che deve mettere questo pezzetto del suo cuore in mano al destino finché il suo cuore è leggero e il destino ha le mani bianche e lisce. Prima che gli venga qualche idea strana e cominci a calcolare i percorsi via terra e mare da Londra a Gelsenkirchen e a pensare che in fondo non c’è tutta questa differenza, se consideri la fila all’imbarco, i controlli, il traffico dall’aeroporto allo stadio.
“Lo sai che hai molte più possibilità di avere un’aneurisma durante il riscaldamento domani sera che di precipitare con questo aereo, vero?”. “Vaffanculo mister, se lo pigli lei un aneurisma”, ride il ragazzo toccando il ferro del sedile e dandogli una spinta sulla spalla.
Dennis sorride di nuovo e si volta abbracciando con lo sguardo tutto quanto, la cabina così intima nella semioscurità, l’addetta stampa che si rifà il trucco, il massaggiatore che dorme con la testa rovesciata fuori dal sedile e il terzino che sta per versargli in faccia una bottiglia d’acqua e già sghignazza, tutto quello che ha rischiato di perdersi e che è qui adesso. Finalmente l’aereo si muove. Dennis stringe i braccioli e si sente formicolare le gambe mentre la pista scorre, attende che l’aereo si fermi e che il ronzio dei motori diventi un rombo, chiude gli occhi, riconosce ancora un po’ di paura quando la poltrona gli si incolla alla schiena, ma è già lontana quando la gravità lo lascia in questo mondo e lo riprende in un altro, inclinato, luminoso. Dennis riapre gli occhi e sorride. Guarda di nuovo intorno a sé, l’orizzonte che fugge e riappare, la luce che gli gira intorno, il ragazzo che ancora si copre il volto con le mani, il massaggiatore che si è già riaddormentato, l’arabo del Golfo nella fila accanto che sorride anche lui, la luce che all’improvviso è ovunque, il vento infuocato per un istante e poi l’aria fresca del mattino, le nuvole lontane, il cielo infinito.