Prendendo in mano un qualsiasi computer, in questo freddo inverno, per chi abbia voglia di farlo, è abbastanza facile scoprire che la prima partita del cuore si è giocata nel 1992, allo stadio olimpico di Roma, davanti a 80mila spettatori, ed è stata vinta per 6 a 5 dalla rappresentativa dei telecronisti Rai contro la nazionale cantanti. Il maestro cerimoniere dell’evento, quella sera e per i successivi dieci anni, è stato Fabrizio Frizzi, il più grande personaggio televisivo italiano degli ultimi trent’anni, insieme a Giancarlo Magalli e ad Alberto Castagna (prima e dopo la resurrezione).
Prendendo in mano un computer, in questo freddo inverno, per chi abbia davvero voglia di farlo è altrettanto facile scoprire che, quattro anni dopo, la partita del cuore tra la nazionale cantanti e la nazionale politici (D’Alema, Maroni, Mastella, Fini, Cofferati, Veltroni e Gasparri) ha fatto registrare uno share del 49,10 per cento. Questo vuol dire che un televisore su due, dalle asfissianti strade della provincia di Ragusa alle montagne impescrutabili di Agordo, quella sera era sintonizzato sulle immagini di Walter Veltroni in porta, naturalmente in porta, come l’ultimo dei derelitti di una partitella nella piazza del paese, sul cemento.
Volendo, ma proprio volendolo fortemente, prendendo in mano un qualsiasi computer in questo freddo inverno, si potrebbe anche seguire passo passo la triste evoluzione della partita del cuore, del suo pubblico sempre più disattento e assente, dell’anglicismo dilagante (Team Ferrari, All Stars for Peace, Golden Team for Children, Team Emergency), della fuga in periferia, del ricambio generazionale tra la classica canzone italiana e una triste imitazione del rap americano fatta da striminziti e tatuati ragazzi milanesi.
Volendo, appunto. Perché in realtà, nonostante il freddo inverno e il piacere di mettere in ordine i ricordi e i fatti storici, non c’è alcun motivo di mettersi davanti a un qualsiasi computer e ricostruire la storia della partita del cuore. Questo perché esiste solo una partita del cuore ed esiste un solo spettatore, un bambino che resta bambino come un cantante resta un cantante e non invecchia mai. Il tempo della partita del cuore non è un tempo episodico e lineare, ma è un ammasso senza forma precisa, di una sostanza morbida e poi improvvisamente indurita, che rimane a lì a tenere assieme molti anni e molti cantanti, come l’ambra.
Non c’è nessun perché e non c’è nessun quando. Ma c’è un come, c’è un chi.
Ecco, per esempio, il signor Fabrizio Frizzi, goffamente incastonato nell’ambra di questa partita del cuore. Ed ecco il bambino, quell’unico spettatore, anche lui prigioniero in un ammasso d’ambra in cui la partita di calcio in televisione era soltanto un’episodio occasionale, come occasionale è la festa. La festa in cui si perde la verginità, quella in cui si sente per la prima volta il contatto di un capezzolo preadolescenziale inturgidito da una canzone di Bryan Adams, quella dove si beve il primo mezzo litro di vodka alla pesca e poi si vomita, quella dove si parla di Mancini e Vialli per non fare caso alla giovane mamma che esorta i bambini a parlare con le bambine, quella dove le brioscine alla nutella sono differenziate, chissà perché, dalle bandiere delle nazioni. La brioscina con nutella e Jugoslavia ha davvero lo stesso sapore della brioscina con nutella e Olanda? Martin Vasquez è farcito con la stessa nutella di Tony Cascarino?
La partita di calcio in televisione, nell’ambra, è un momento di gioia e scoperta preceduto e seguìto da tante parole, tanti Milan/Juve/Inter squadra mia, tante videocassette con i campioni del passato, tanti servizi di novantesimo minuto con il singhiozzo ritmato di Franco Strippoli, tanti secondi tempi su rai due a risultato già noto, tanta doppia colonna singola al totocalcio che è meglio della singola colonna con una doppia, tanti montepremi per i 13 e per i 12, tante vere notizie di vero mercato, tanti nomi che nessuno è in grado di abbinare a un volto che non sia quello della figurina Panini, magari in serie B, magari doppia.
La partita di calcio in televisione, nell’ambra, è un evento comunque straordinario, che sia la finale di coppa campioni, la partita di qualificazione all’europeo della nazionale di Vicini o la partita del cuore. E milioni di bambini davanti alla Tv, incapaci di valutare calcisticamente Brehme ma fin troppo capaci di capire che Giancarlo Fisichella sa giocare a pallone, impegnati la mattina dopo in un’analisi tattica della partita del cuore che dice tutto sulla bellezza del calcio e fortunatamente non dice niente di quello che verrà dopo, fuori e lontano dall’ambra.
C’è solo una partita del cuore, là dentro. Una sola partita del cuore che comincia e finisce più o meno nello stesso punto. In questa partita del cuore ci sono Raimondo Vianello e Gene Gnocchi, uno vecchio fratturato con la maglia numero 10 sempre pulita e stirata, l’altro coi piedi buoni, a parlare di Savicevic nell’intervallo, con quell’aria del comico che non può più nascondere il suo dolore. Ci sono Ramazzotti e Barbarossa in corsa sulle fasce, di piede e di gamba più che di testa, fino a quando la porta diventa troppo vicina e si scopre che la palla è pesante e non sanno tirare. C’è Ray Lovelock, in sovrapposizione sulla destra, e metà del pubblico a casa che si chiede chi diavolo sia Ray Lovelock e l’altra metà che sussurra “ma te lo ricordi Ray Lovelock?”. Ci sono Enrico Ruggeri e Stefano Masciarelli che sembrano Pato Aguilera e Thomas Skuhravy, sempre vicini e sempre pericolosi. Ci sono vari eroi della televisione, sovrapposti come spettri, a calpestare maldestramente tutte le zolle del campo. Magalli che inciampa e allarga le braccia con un sorriso che implora comprensione e affetto. C’è l’anziano Mogol, con un umile numero 2 sulla schiena curva da contadino, e Gianni Morandi che si affanna, in un fremito di terrore ed eccitazione pensando a quando sarà costretto a riproporre ancora il suo sorriso cartonato per gridare “Si può dare di più”. Ci sono le cause benefiche di cui non frega niente a nessuno, tranne che, forse, a Mogol. A un certo punto c’è anche Milly Carlucci, la giovane mamma della festa, bella come un’ubriacatura di Vodka alla pesca, che sorride e contorce le labbra come lo stomaco alla fine di un’esperienza mai vista e mai immaginata.
Frizzi, il giovane papà che tutto riporta alla giusta dimensione, è in postazione da telecronaca che alterna risate sornione a forzate lodi per tutti gli artisti in campo, Frizzi gran cerimoniere del cuore.
È tutto lì, le vestigia di Italia novanta e che festeggiano la potenza infinita degli anni ottanta con anni di ritardo. Non c’è nessuna interruzione pubblicitaria. Non c’è nessuna ironia da quattro soldi cucita appositamente per un pubblico deluso e cattivo, animato soltanto dalla voglia di insultare. Non c’è l’ironia e non c’è la cattiveria. Ci sono soltanto i cantanti che giocano a calcio, su un campo di calcio vero, in uno stadio di calcio vero e quindi sono giocatori veri. Ci sono milioni di bambini e di fantasmi che li guardano giocare e fanno il tifo, senza alcun motivo, perché il tifo è quello che si fa davanti a una partita di calcio in televisione.
Non c’è nessun perché. I perché arriveranno dopo, partoriti dai computer e dalla voglia di ricordare qualcosa senza ricordarlo come si deve. Là dentro, in quel blocco d’ambra, ci sono soltanto il calcio sporadico e la chiacchiera infinita, lo scivolone di Luca Carboni davanti al portiere, il boato della folla, l’antenna che va aggiustata sul tetto della casa al mare. C’è il rigore decisivo, sul 7 pari, tirato da Vianello. Vianello segna, c’è il sospetto che gliel’abbiano fatto segnare. Sandra Mondaini ride inquadrata dalla tv. L’immagine salta, l’antenna non va. Vianello non morirà mai. Il calcio è meraviglia.