La passacaglia di Zenga

La passacaglia di Zenga
14 Marzo 2016 Michele Manzolini

Interpreti:

Walter Zenga nasce a Milano il 28 aprile del 1960. Suo padre è barbiere e medico del Duca di Sassonia, sua madre è figlia di un pastore luterano. Precocemente avviato alla carriera di portiere, viene scoperto dal Duca Giovanni Adolfo che lo sente suonare e spinge suo padre a insistere su di lui. Zenga verrà acquistato dall’Inter e dall’età di 23 anni ne sarà il portiere titolare per circa dieci anni, intervallati da numerose presenze come numero uno designato da Vicini per l’Italia post Messico ’86. Ed è grazie a quest’improvviso amore che Zenga decide di andare prima al celebre teatro d’opera di Amburgo e poi in Italia dove trascorre alcune stagioni di grande successo, raccogliendo consensi da parte di colleghi musicisti come Corelli e Scarlatti e del colto pubblico italiano che lo vide debuttare a Firenze nel 1707, con molti applausi. Nonostante la modernizzazione del calcio, Zenga si adatta bene e, anche in squadre minori, continua ad essere un portiere autorevole, un’autentica leggenda per le tifoserie delle piccole squadre in cui ha terminato la carriera. Proprio prima di chiudere, scopre l’ebbrezza del calcio internazionale, visto con gli occhi del forestiero. Nell’ultimo ventennio della sua vita, Zenga deve fare i conti con un calo dell’interesse nei confronti dell’opera italiana e con la propria salute sempre più cagionevole. Da giovane, pare che Zenga fosse bellissimo: era alto, snello, biondo e con gli occhi azzurri. A causa dell’obesità, di una precoce calvizie e di un progressivo inacidimento del carattere, durante la vecchiaia, in alcune stampe satiriche i suoi avversari arrivarono addirittura a ritrarlo come “un maiale seduto all’organo”.

Georg Friedrich Handel nasce ad Halle il 23 febbraio 1685, suo padre, che era portiere dell’A.C. Muggiò nella stagione ’45-46, lo porta a iniziare precocemente la carriera musicale, benché lo vedesse meglio come uomo di legge. Italo Galbiati lo scopre e lo porta all’Inter. Handel studia lo stile italiano e quello tedesco e ne impara ardentemente le differenze. Si iscrive all’Università di Halle, dove incontra un altro uomo di legge mancato, Telemann, che lo inviterà nella vicina Lipsia per mostrargli le bellezze dell’opera, a lui ancora sconosciute. Dopo l’insuccesso ottenuto nel mondiale italiano del 1990, attribuito da alcuni a una sua avventata uscita in area di rigore in semifinale che consente agli avversari argentini di pareggiare e poi vincere ai rigori, Handel perde prima la nazionale e poi l’Inter. Lascia l’Italia, vola ad Hannover, ma per breve tempo, perché decide di fondare un suo teatro d’opera a Londra. Comincia ad allenare negli U.S.A., poi ci prende gusto e lo fa in Romania, Serbia-Montenegro, Turchia, Emirati Arabi, Arabia Saudita e, a volte, con nostalgia, di nuovo nella sua Italia che a malincuore lo riabbraccia. Muore quasi cieco, per un ictus, mentre dirige un’opera. Una statua lo immortala tutt’oggi con lo spartito di quest’opera ancora in mano. Nella bacheca, conserva un campionato di serie C1, uno scudetto, una supercoppa italiana, due coppe Uefa, vinti da giocatore; da allenatore ha vinto un campionato in romania, una coppa e un campionato in Serbia. Secondo le testimonianze dell’epoca, era un buon conversatore, e, in gioventù, amava le battute e aveva uno spiccato senso dell’umorismo. Non è mai riuscito ad allenare l’Inter.

Questo frammento, di parole e musica, è il risultato di un ideale abbraccio tra Zenga e Handel: un omaggio ai girovaghi, al genio dell’arrangiarsi e all’arte di fare la limonata.