Qui il capitolo I
Qui il capitolo III
Sbirciate sudate, bocche tremolanti. Fruscii peccaminosi e pettegolezzi sussurrati nelle orecchie pelose dei massaggiatori. Allenatori col pugno di ferro e allenatori in seconda con le mani di fata. Onorevoli, terzini superdotati, centravanti che in settimana danno tutto. Giorno e notte e dentro e fuori dal campo, dentro e fuori, fallo e controfallo, stantuffate e sospensori fustigati. Docce gelate mani bollenti figli illegittimi e multicolore. Chiappe chiacchierate, capitolo II.
Roma, 1951
La classifica piange già da un po’ e nessuno sa spiegarsi il perché. Qual’è il demone che si è impossessato della squadra? I ragazzi sono in ritiro punitivo da giorni, poco fuori Roma. Il biliardo, il biliardino i flipper con le luci intermittenti. Qualuno è riuscito a imboscare un borsone militare nel portabagagli del pulmino, nascosto sotto le tute di lanetta rancide di sudore. Sheena e Tiger Girl, le cosiddette tarzanidi, si agitano con mosse esotiche e suggestive contro leopardi e gorilla sulle pagine di un giornaletto appena aperto e già consunto. Le dita callose si muovono frenetiche alla ricerca della bottiglia di Vat 69 fra le mutandine di vecchie fidanzate e i flaconi di unguento al Tepezcohuite. Ma non basta. I ragazzi hanno fame. Le frustrazioni, gli sfottò dei giornalisti, I silenzi stampa, li hanno paralizzati da settimane. Nessuno in campo se la sente più di prendere l’iniziativa, o di prendersi un’altra pernacchia. Il giorno dopo partiranno per Milano, per l’ultima partita contro i campioni d’Italia, ormai ininfluente. Dicono sia l’occasione di salvare la faccia. Al terzo cambio di allenatore è evidente che la colpa sia della squadra.
Sono quasi le due di notte e i ragazzi hanno esaurito le barzellette sconce. Lo spilungone svedese è abituato a ben altro. Là le donne sono più aperte, si dice in Italia, là non c’è il Vaticano, là fa freddo e si sta stretti, là già dalle elementari si fa educazione sessuale. Per il resto della serata lo svedese è rimasto accovacciato in un angolo a sfogliare freddamente i fumetti con le donne nude, annoiato. Finalmente alza lo sguardo, sornione, verso i compagni. Prima che apra bocca gli altri hanno già capito cosa stia per dire. “TUTTI DA ZIA VINCENZA!” urlano in coro. L’allenatore in seconda e i magazzineri hanno già mollato da tempo, per evitarli e uscire dall’albergo basta una mille lire.
Tre tassì aspettano fuori dal cancello. I ragazzi si stringono nei sedili posteriori e l’aria fresca della notte di inizio estate inizia a inturgidirli. I sensi si risvegliano dal torpore di moquette e canzonette che li aveva avvolti per tutta la serata. Zia Vincenza, o “l’onorevole” come lo chiamano fra di loro, apre la porta del suo pied a terre di Monti. È vestito da geisha. Sorride malizioso sotto i folti baffi bianchi vagamente ingialliti dalla nicotina. La dentiera aiuta a creare sul suo volto un’espressione congelata, ieratica, artificiale. I piccoli occhi porcini si stringono fino a sembrare delle mandorline, i piccoli occhi non vedono bene, senza occhiali, i piccoli occhi scrutano, e si mangiano con gli occhi i giovanotti prestanti che stanno per entrare nella tana del lupo. Lo svedese è il primo a varcare la soglia e ad essere inebriato dai profumi orientali. Anche il “press agent” dell’onorevole indossa un kimono. È seduto su una chaise longue e giochicchia con gli infradito di legno sfregando l’alluce e il secondo dito del piede al ritmo dei tamburi del kodo in sottofondo. Il resto è una nuvola scura e densa di fumi genitali, macchie sul tappeto, occhi sgranati e lacrime di colpevole lussuria. È mattina. L’odore del caffè bruciato copre quello acre della nottata. La dentiera frigge nel bicchiere di vetro color fondo di bottiglia.
I ragazzi partono presto. Dormono come bambini, in treno e la notte successiva in albergo. Vincono col Milan. Il risibile pubblico di romani a San Siro non applaude, e esce mesto dallo stadio. Retrocessi con disonore, tornano dalle proprie mogli, fidanzate, dalle amanti e dalle mignotte della Salaria. Ritiratevi! Datevi all’ippica! All’epoca si diceva così. Le parole non li feriscono, non attecchiscono. Sotto i caschi di folti capelli e brillantina un tamburo giapponese continua a rimbombare, e una sola frase echeggia ogni notte nel talamo nuziale: “Amò, che te lo metti il kimono stasera?”
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