Si chiude qui il sipario di carne, finiscono qui le sbirciate al buco nero e vorticoso delle storie sui vizi privati di allenatori e calciatori. Valderrama sa i nomi, Valderrama era là e ha visto tutto. Ha guardato compiaciuto l’afflato, erotico e disperato, di giovani uomini condannati ad essere figurine. Ha staccato la colla con vapore caldo e amorevole pazienza, e scoperto le donne nude nascoste fra le pagine dell’album Panini. Restano solo pochi frammenti di quel mondo, sparsi nell’etere, eclissati dalle immagini blindate delle televisioni satellitari. Un ultimo grido, un’ultima smorfia di piacere, un’ultima chiacchiera un ultimo fremito di chiappe.
Formello, 1997
È cresciuto in mezzo a donne forti, donne coi tacchi a spillo, donne che parlano poco e se parlano ti dicono di comportarti da uomo vero. Lui ha deglutito con dolore la propria timidezza e ha giocato la parte. Ma in campo e fuori, non ha mai ceduto alla facile brutalità, ai modi rozzi dei suoi coetanei in quella parte del mondo. Gli è sempre piaciuto curare il proprio aspetto, arricciare il ciuffo, alzare il colletto, accarezzare il pallone. La bordata da fuori area solo una necessità, mai un vero piacere. Alla Samp si è reso conto che amava giocare spalle alla porta, quando gli attaccanti si allargavano lasciandogli spazio per l’inserimento. I tacchetti che spingono sul calcagno, il fiato caldo e i capelli lunghi e oleosi dello stopper che sbattono sul collo. Odore di sandalo e di ormoni. Ogni tacchetto un tacco a spillo, ogni fitta un ricordo. Un ricordo di un tempo in cui veniva giudicato per un’erezione mancata, per un mal di testa simulato e ammonito da una donna severa, in camicia nera. Un giorno ha notato lui, in ritiro. Solo un ragazzo, semplice, con occhi buoni che non giudicano, non pretendono, non impongono ruoli. Ha otto anni meno di lui e un accento di provincia che i compagni romani trovano ridicolo. Eppure suona così innocente, nella sua goffagine. Per un anno intero seduti vicini sul pullman. In camera insieme, nelle trasferte. Una serata indimenticabile a Parigi, bottiglie di champagne, poco importa il risultato. È di nuovo tempo di ritiro ed entrambi, il vecchio e il giovane, non vedono l’ora di ritrovarsi in camera insieme in quel piccolo hotel di montagna. Siedono negli spogliatoi di Formello, con l’asciugamani arrotolato sui fianchi. Fra i vapori delle docce, come in un sogno, ricordano Parigi. Pensano a come unire i letti senza farsi sentire, una volta in ritiro. Ma un compagno apre la porta.
Vede le loro dita intrecciate, le ginocchia troppo vicine. Scoppia a ridere e corre via, prima che i due possano inventare una scusa, fingere sia tutto uno scherzo, una sciarada. Tutta la squadra, la società, la città, ormai racconta di un amplesso violento, di ruoli definiti, del vecchio campione che avrebbe plagiato, subornato, il giovane di provincia.
Il vecchio parte per Madrid. Prova a dimenticare. Il giovane va alla Samp. Siede sulle panche degli spogliatoi, dove anni prima avevano poggiato i lombi ancora tonici del vecchio. Si asciuga gli occhi con della carta igienica. Tutta l’innocenza rimane là, intrappolata fra tre strati di morbidezza.
Torino, 1995
Sveglia. Due cucchiaini di creatina. Crostata di frutta, caffè, biscotti. Cinque cucchiaini di zucchero. Allenamento. Palestra. Due cucchiaini di creatina, di nascosto, dietro la macchina per gli addominali. Il gusto inizia a piacergli. Gli hanno detto che è come mangiare una bistecca. A lui piace la bistecca, al sangue. I turtèi che la mamma gli ha fatto per tutta l’infanzia erano stucchevoli, non ha mai capito il perché dell’uva sultanina. Pensa ai turtèi e si sente depresso. Corre al cesso. Vomito e diarrea. Per riparare, altri due cucchiaini di bistecca. Davanti allo specchio, nota che le labbra gli si sono ingrossate. Forse è allergico, ma nemmeno con il cortisone il gonfiore accenna a diminuire. Pensa alle labbra e si sente arrabbiato. Arriva il medico. Iniezione di Samyr, 15 gg. L’umore migliora. Pranzo. Bresaola, parmigiano, pasta in bianco con parmigiano. Crostata di frutta, caffè. Due cucchiaini di zucchero, due cucchiaini di bistecca. Steso sul letto per la pennica pomeridiana non riesce a chiudere occhio, il Samyr inizia a fare effetto. Un paio di partite a Street Fighter. Pugno, calcio, pugno mezzaluna bottone rosso, bottone blu, pillola rossa pillola blu, allenamento del pomeriggio. Entrata a gambe unite, piede a martello, furore. Le urla dell’allenatore e il Samyr fanno alzare il pressing e il battito cardiaco. Un paio di compagni sono passati a 30 gg, pressano di più, corrono il doppio. Anche lui vuole passare a 30 gg, altrimenti non smaltirà mai le bistecche in polvere. Botta alla tibia. Dolori articolari, iniezione di Voltaren. L’umore cala, il pressing si abbassa, ritorna il ricordo dei turtèi, l’abbraccio soffocante della mamma che odora di canfora e naftalina. La vista si annebbia. Gli occhi sono gonfi. Impacchi di ghiaccio. Fra le fibre della garza e le sfumature bluastre del ghiaccio secco, vede la bocca rugosa e intirizzita della nonna che gli bacia la fronte. Corre al cesso per vomitare di nuovo. Altri due cucchiaini di creatina. Invoca Samyr. Samyr. Samyr. Un genio della lampada col turbante, più che un farmaco. Ora gli occhi sono spalancati. Lo stomaco e l’intestino si serrano, trattengono i liquidi, stritolano i ricordi al cedro candito e all’amaretto. La bocca dell’allenatore col sigaro diventa la bocca della nonna. Nella testa lucida e pelata del compagno vede riflesse le facce di tutta la sua famiglia. Si avvicina un compagno, già canuto, gli poggia una mano sulla spalla. Gli occhi offuscati, un urlo strozzato: “Nonno?”
Sviene. Si risveglia in una clinica. I medici parlano in inglese, come nei film americani. Lui non riesce a parlare, ha un tubo incastrato nell’esofago. Ma sente tutto. Uno dei medici è italiano: “sto ragazzo è na discarica, dobbiamo ripulirlo da dentro”.
Città del Messico, 1991
Fiocco blu. È un maschietto, sano, in carne, coi capelli neri come il carbone. Anche l’incarnato è scuro. Il capitano ha superato momenti peggiori, sorride con timidezza e tiene fra le braccia il bambino. Anni prima lo avevano portato via dal ritiro in sedia a rotelle, qualcuno mormorava fosse un cancro. Era tornato, più forte di prima: si era trattato solo di un virus passeggero. Il conteggio degli spermatozooi però raccontava di un impietoso verdetto di sterilità. Mesi di litigate, sospetti, accuse reciproche con la giovane moglie. Gli incontri col prete non avevano portato a nulla di buono. Adottare un figlio nei tardi anni ’80 era ancora malvisto dai vicini, dai colleghi, dai parrocchiani. Il capitano si era anche rivolto al Presidente, ma un figlio non è come una macchina nuova o un villino a Milano Due, nemmeno lui l’aveva salvato dall’ignominia del restare senza eredi.
C’è un compagno, che sotto le docce attira le battute di tutta la squadra per i suoi attributi. Ha la pelle scura, i baffi folti, e il suo sesso ricorda il braccio di un neonato che stringe una mela.
Il capitano, da quando si è sparsa la voce che non riesca a ingravidare la moglie, non partecipa più agli sfottò. Con rispetto gli hanno lasciato un angolo in cui farsi la doccia da solo, indisturbato. Dal suo angolo guarda il compagno e il suo corpo sano, prestante. Il suo fallo si ritira fino a sparire in un rado cespuglio di peluria biondo cenere. Vorrebbe chiedergli qualcosa, ma le parole gli si sciolgono in bocca, col gusto amarognolo del sapone Intesa e della vergogna.
Da quando ha ricevuto i risultati del test di fertilità, non parla più. Si consola esprimendo ciò che rimane della sua virilità in campo, con gli interventi muti e impeccabili, con i fuorigioco chiamati col braccio alzato, rigido e imperioso.
L’atmosfera si è fatta pesante in ritiro, e la squadra inizia a risentirne. Qualcuno prova a parlare al capitano. Gli dice gli olandesi, che hanno anche i matrimoni omosessuali, non hanno tutte queste paure dell’inferno. Sono immuni al nostro bigotto senso di colpa, di peccato, di adulterio. Il capitano non può immaginare che si tratti di uno scherzo crudele, di una trappola. I più giovani in campo gli danno del Lei. Il capitano pensa, mentre fa le valigie per la prossima trasferta. Ricorda l’incontro con la moglie in discoteca, al pomeriggio. Il vestito bianco, i lunghi capelli biondi, il sorriso del prete. Il taglio della torta a forma di pallone. Se non le darà un figlio la perderà, pensa. Dovrà rifare tutto da capo. Sono vent’anni che non va in discoteca. Il compagno baffuto e il suo membro rimarranno a Milanello, per un lieve infortunio muscolare.
Al capitano tremano le mani. Strappa una pagina dall’agenda aziendale col biscione, mai utilizzata, e impugna una matita. Con la scrittura che sembra quella di una nonna, o di un bambino, scrive poche, soffertissime parole. C’è un nome di donna, un numero di telefono, una preghiera. Si intravede la parola “Dio”.
Nove mesi dopo, iniziano i cori. I compagni ridono di lui, quando sale sulla sua Lancia Delta e ritorna a casa. Lui non sente i cori, non sente le risa. Ha già parlato col Presidente. Gli ha chiesto il primo vero favore della sua vita. Cedere l’uomo con i baffi, mandarlo lontano dalla moglie e dal figlio, non farlo tornare mai più.
Nei suoi sogni, spesso banali, il baffo appare ancora, di tanto in tanto, e si confonde con i lunghi capelli biondi della moglie. Ogni volta che a Milanello arriva un giocatore di colore, il capitano si allena a parte e raggiunge le docce da solo, in silenzio. Una tentazione lo sfiora, ma dura poco, il tempo di un coro: “voglio essere di nuovo papà”.
CHIAPPE CHIACCHERATE CAPITOLO I
CHIAPPE CHIACCHERATE CAPITOLO II