Articolo originale di Martín Caparrós per SoHO
Sono dieci anni che lo guardo giocare ogni domenica. Nel 1997, quando è arrivato, Martin Palermo era un omone coi capelli tinti di biondo platino che segnava un sacco di gol e si faceva fotografare vestito da donna per il quotidiano Olé. Ci voleva fegato per far circolare quelle foto in un ambiente così maschilista, lo stesso fegato che metteva in campo ogni domenica, quando non si curava di incartarsi con la palla o di inciampare nei suoi stessi piedi. Erano i suoi primi anni in quel Boca perfettamente splendido di Bianchi, Riquelme, Barros Schelotto e della pattuglia colombiana. Palermo era arrivato con 23 anni sulla carta d’identità e qualche fallimento alle spalle. In 5 anni e 99 partite con il suo club di origine, l’Estudiantes, aveva segnato solo 27 gol: una miseria. Di fatto quando il Boca lo comprò stava per andare a una squadra di serie B di Tucumán. Quel trasferimento fu il suo primo, grande colpo di fortuna.
Il maestro Bianchi lo convinse delle sue potenzialità. In quella squadra, dove gli arrivavano tanti palloni ben giocati, fece più gol di chiunque altro. “L’ottimista del gol”, lo chiamò Carlos Bianchi, che non sospettava certo che dieci anni più tardi Palermo lo avrebbe scalzato dal nono posto della classifica dei cannonieri del campionato argentino di tutti i tempi. Martín Palermo era esattamente questo: un ottimista, un giocatore non eccelso che quasi senza mezzi tecnici e a forza di tigna e fortuna e capocciate e coraggio è arrivato in vetta. Lo chiamavano “El Loco”, ma all’inizio io e mio figlio Juan lo chiamavamo – con affetto – “El Muerto”: era come una mummia risuscitata che a ogni movimento cercava di rompere il rigor mortis.
Nel dicembre del 1998 fu il goleador del Boca campione – 20 gol in 19 partite – e nel marzo seguente era già il numero 9 della nazionale argentina che lo portò alla Coppa America in Paraguay per continuare a battere record. Contro la Colombia sbagliò tre rigori in un’unica partita e dice il Guinness dei primati che nessuno ci è più riuscito. Il Guinness, in compenso, non parla di quella volta in cui calciò un altro rigore con entrambi i piedi – perché era inciampato – e l’arbitro, attonito, convalidò il gol. Ma la partita che tutti ricordiamo è un’altra. Si è giocata in una fredda notte di maggio del 2000. Il Boca contendeva la Libertadores al River Plate, alla Bombonera. Palermo non giocava da diversi mesi ed era stato operato per un’infortunio al ginocchio. Entrò negli ultimi minuti, quando il Boca vinceva già 2-0 e Riquelme stava concludendo una delle sue grandiose esibizioni.
L’ho raccontato, anni dopo, nel mio libro Boquita: “Quella notte, Palermo entrò tra grida frastornanti, i gol erano nell’aria, i tifosi del River erano sempre più spaventati, Aimar deambulava per il campo chiedendo perdono senza che nessuno glielo concedesse e all’improvviso non faceva più freddo. Quando la partita stava finendo ed era ormai solo godimento, Battaglia gli mise un pallone dalla sinistra e lui, fermo sul dischetto del rigore, lo ricevette spalle alla porta. C’erano tre o quattro difensori intorno ma Martín cominciò a girarsi: ci volle un po’. Poi continuò a girarsi: era un movimento interminabile, scomposto, che durava anni, e i difensori restavano fermi, guardandolo come tutti noi. Finché terminò di girarsi e si sistemò più o meno per colpire con il sinistro e i tifosi del River che lo guardavano sconvolti e lui che tira, mezzo di sbieco, male, debolmente da una parte e la palla che parte lenta e lenta, molto lenta, sta entrando nella porta di Bonano, lenta, come se non volesse, affinché tutto fosse un immenso piacere”. Non c’era mai stata una notte così, non ce ne sarà più un’altra. Tutto fu immigliorabile. Da allora abbiamo vinto molte partite importanti, ma nessuna ci ha fatto godere come quella. Poi a novembre Palermo fece al Real Madrid – in cinque minuti – i due gol con cui il Boca vinse la Coppa Intercontinentale. Il suo futuro sembrava assicurato.
Per metterlo in banca se ne andò in Spagna. Lì cambiò tre volte squadra. In tre anni e 106 partite tra prima e seconda divisione segnò 26 gol: un’altra miseria. Così tornò al Boca: lì sì che segnava. Io e Juan gli cambiammo soprannome: “El Muerto”non era più sufficiente, perché la sua turpitudine debordava oltre l’individuale e inondava il collettivo: così passò a chiamarsi “Semaforo”, perché interrompeva ogni circolazione di gioco della squadra. A volte mi divertivo a seguirlo con un foglio di carta e una matita: tra l’80 e il 90 per cento dei palloni che toccava non andavano a un compagno ma verso qualche altra sorprendente destinazione. Fa lo sgambetto alla sua ombra, cade, si scontra con sé stesso, muove le sue lunghe gambe come chi sposta un pianoforte, fa un assist a un uccello nel cielo. È bello vederlo in mezzo alla Bombonera: quando fa un passaggio e il passaggio arriva a destinazione, le tribune respirano di sollievo: tutti condividiamo lo sforzo erculeo. E, a forza di insistere e mettersi nel posto giusto, a volte ci riesce: un ottimista senza pudore.
Io l’ho detestato per molti anni. Ora lo ammiro come pochi altri. È facile trionfare se si è Messi. Quello che è difficile, meritorio, incredibile è vincere essendo Palermo. Palermo è un canto di speranza, il vessillo di noi che non abbiamo mai avuto nessun talento particolare, la dimostrazione che tutti possiamo farcela.
Chissà, a volte penso che la verità sia più complessa. In questi ultimi anni – che minacciano sempre di essere gli ultimi della sua lunghissima carriera – “El Semáforo” si è posto un obiettivo: vuole essere il miglior goleador della storia del Boca. Ci si è avvicinato. Ogni volta non arrivava sui cross, non riusciva a controllare la palla, non riusciva a calciarla senza cadere, ma continuava a fare gol. Una bomba da 60 metri, un colpo di testa da 40 che il Guinness, ancora lui, ha accettato come record, e, per finire, il ritorno in nazionale. Maradona è tornato a convocarlo nell’ottobre del 2009, dieci anni dopo. Quella notte pioveva e l’Argentina pareggiava col Perù e stava per restare fuori dai mondiali. Martín Palermo entrò in campo verso la fine e, ci mancherebbe altro, segnò il gol decisivo – col naso rotto, al 94esimo e in fuorigioco – e qualificò la Selección. Era (sembrava) il suo apice.
Ma lui insisteva con la storia. Il 2 marzo del 2010 è arrivato, finalmente, ai 218 gol che eguagliano il record di Roberto Cherro, un cicciottello che giocò negli anni venti e aveva segnato più di tutti nella storia del club. A Palermo ne mancava ancora uno per superarlo e pareggiare non era mai stato il suo obiettivo. Dopo altre sei partite il gol numero 219 non era ancora arrivato. Palermo giocava male e il Boca era all’inferno: perdeva sempre, era penultimo in classifica, il suo allenatore era appena stato esonerato. Lunedì 11 aprile, con la Bombonera quasi in lutto, un traghettatore si faceva carico della squadra per un mese e gli ultras e i giornalisti non smettevano di parlare della lite continua tra i due punti di riferimento del Boca, Palermo e Riquelme, che sicuramente si sarebbe conclusa con il trasferimento di uno dei due. Gli ultras stavano con Riquelme e il goleador stava forse giocando le sue ultime partite. Martín Palermo non lo diceva ma era roso dai dubbi, dai sospetti: cominciò a pensare che forse aveva nuotato tutti questi anni per poi morire in vista della spiaggia, poco prima di arrivare. Lui, che ne aveva segnati tanti, non avrebbe mai segnato il gol definitivo.
La partita è cominciata bene: la squadra passava e passava, girava, si avvicinava. Sembrava molto diversa da quel fantasma che aveva calcato i campi nelle ultime settimane. Finché, al minuto numero 9 – ovviamente – un elegante scambio con Gaitán lasciò Riquelme solo davanti al portiere. Per un giocatore del suo livello metterla dentro era una formalità. Invece, con quella coda dell’occhio che più che vedere costruisce, Riquelme allargò il pallone: prendi, segnalo, non è difficile, te ne ho già dati tanti. Te lo do, segnalo e così non parliamo più di numeri rompicoglioni. Palermo la spinse e si mise a correre tutta la gioia e tutto il sollievo: aveva segnato il suo gol numero 219 e ormai era storia, la storia più inverosimile, quella del campione più scarso del calcio argentino.