L’inverno arriverà, si sente dall’aria fredda. Oggi però il sole è abbastanza caldo e la temperatura non scende sotto i sette gradi. I grandi alberi di piazza Aspromonte, incuranti del forte vento che spazza il cielo e scuote le poche foglie rimaste attaccate ai rami, osservano il via vai che si perpetua ogni giorno sotto di loro. La gelateria l’Ottavo Nano è chiusa ormai da qualche settimana, mentre il sexy shop automatico Mon Amour è aperto, come sempre, 24 ore su 24. Le signore della piazza, come ogni giorno, sono ferme agli angoli delle strade. Esmeralda abbozza un sorriso sdentato a un passante che però non ricambia e tira dritto. Nell’area per cani del parchetto, un minuscolo pincher abbaia forsennatamente verso un mastino napoletano, che in tutta risposta inizia a defecare.
Da ragazzo mi innamorai della maglia della Juventus, il bianco e nero mi faceva impazzire, con i calzoncini e i calzettoni bianchi. Mi dava una sensazione diversa da tutte le altre squadre. Non era difficile avere simpatia per quella squadra, al di là delle suggestioni cromatiche: Boniperti e Sivori divennero i miei idoli. Poi conobbi Gianni Rivera, che andai a trovare a casa sua spacciandomi per giornalista quando ero invece uno studente universitario. Divenne un’altra delle mie manie da appassionato di calcio. Così come più tardi mi fece impazzire Sandro Mazzola.
Piazza Aspromonte è la piazza in cui Maurizio Mosca sarebbe stato visto “comprando 400 mila lire di cocaina”. Questa è stata l’accusa sgrammatica rivolta telefonicamente al giornalista da un telespettatore durante una diretta della trasmissione Supergol su Cinquestelle TV. Era uno scherzo, probabilmente. Anche perché in Piazza Aspromonte a inizio anni Novanta avrebbe trovato più facilmente l’eroina. Intanto nel campetto di basket, al centro della piazza, sta iniziando una partita tra un gruppo di ragazzi peruviani e filippini. Nel Perù gioca un nero che indossa la maglia dei Lakers di Kobe Bryant ed è più alto di tutti di almeno venti centimetri. Al supermercato della scarpa, all’angolo con via Pecchio, un gruppo di ragazze sta scegliendo quali stivali comprare per affrontare la lunga notte di lavoro che le attende.
Ci sono sempre state due filosofie: quella più offensiva e quella difensivistica. Io sono ovviamente per il coraggio, per lo spettacolo, tifo per le squadre che aggrediscono, che divertono, fanno più goal che pensare a difendersi. Negli anni Sessanta dominava la grande Inter di Herrera, ma io preferivo il Milan di Rocco, lo trovavo più divertente con Mora, Amarildo, Sormani, Rivera, Barison, Prati.
A sette chilometri esatti da Piazza Aspromonte si erge il cimitero di Bruzzano. Costruito a inizio Novecento, è delimitato da un enorme muraglione color amaranto che circonda i sepolcri. Questi sono disposti in campi numerati dall’1 al 28. La salma di Maurizio Mosca è inumata nel campo 5 nella fossa numero 269. Per raggiungerla bisogna camminare lungo la strada principale fino a una rotonda immersa nel verde, il centro esatto del cimitero. Sulla sinistra si trova il campo. I giardinieri del cimitero stanno tagliando i rami pericolanti che incombono su alcune lapidi. Il marmo della tomba è marroncino con venature rossastre. Sulla stele c’è una croce scolpita nella pietra e alla sua destra la foto del defunto. Mosca ride sornione. Indossa giacca e cravatta con l’immancabile gilè.
Ho curato per tanti anni alla Gazzetta le pagine dedicate al Giro d’Italia. Dal 1976 al 1983. Negli ultimi tempi mi occupai anche delle pagine dedicate al calciomercato. È un tema che appassiona la gente. Quella passione mi è rimasta perché il calciomercato è un romanzo fatto da intrighi, retroscena, colpi di teatro, sogni, delusioni. È meraviglioso quanto una partita. Aldo Biscardi poco tempo fa mi disse: “La gente vuole sempre di più notizie di mercato. Non facciamo un siparietto fisso, noioso e con nomi che la gente non conosce”. Nacquero le ‘bombe di Mosca’, che ogni tanto trasformiamo in super bombe, bombonissime, bombette o petardini.
Appena sotto la foto si legge: Maurizio Mosca, 24-6-1940/3-4-2010 “Ho cercato di spargere allegria tra la gente”. Due mazzi di fiori e un pallone sono riposti sulla parte orizzontale della tomba. La palla è appoggiata su una pedana tonda dorata. Con quel supporto ricorda vagamente il pallone d’oro solo più sbiadito e impallidito dagli eventi atmosferici e dall’incessante passare del tempo. Qualche lapide più in là, una signora, dopo avere posato i fiori sulla pietra sotto la quale riposa il marito, inizia a pregare a bassa voce. Ha in mano un rosario che pende tra le dita. La catenina oscilla nell’aria. Prima ruota in senso orario, poi improvvisamente cambia direzione e segue una traiettoria diagonale. Infine rallenta fino a fermarsi, immobile. Come un pendolino.
Era estate. Io e Sandro Piccinini ci stavamo preparando per Guida al campionato. Stavamo bevendo qualcosa al bar della piazzetta di Milano 2, sotto la redazione. Passò un venditore ambulante di portachiavi con i colori delle squadre di calcio. Erano strani, a forma di cilindro, appesi a una specie di catenina. Ne presi uno e dissi a Sandro: “È come il pendolino dei maghi che prevedono il futuro. Io ci potrei fare i pronostici delle partite più importanti”. Solo chi fa i pronostici li può sbagliare. E io ne ho sbagliati molti, chissenefrega, è un gioco. Ma un piccolo vanto ce l’ho: azzeccai il risultato di Argentina–Camerun, partita inaugurale dei Mondiali di Italia ’90. A San Siro il Camerun vinse 1-0, come avevo pronosticato con il pendolino.
Cala la notte in Piazza Aspromonte. In piazza non si vendono né si consumano droghe. Le signore, con il tramonto, sono scomparse dagli angoli delle strade. Il loro posto è stato preso da ragazze più giovani e avvenenti, per lo più dell’est Europa, che fanno capolino tra le macchine parcheggiate. Si accendono le insegne dei numerosi alberghi a una stella, crocevia d’amore.
Vivo da solo e per più di dieci ore al giorno, sette giorni su sette, sono al lavoro. Le ultime vacanze le ho fatte nel 1989 alle Mauritius per una settimana. Sto bene così, senza il calcio e senza il mio lavoro mi sentirei perso. Non guido e non ho la macchina perché ho la vista molto bassa, mi sono sempre fatto bastare quello che ho guadagnato. Come mi avevano insegnato i miei genitori, Giovanni e Teresa.
Alcune pagine rosa di una gazzetta abbandonata volano sospinte dal vento. Qualche foglio è stritolato dalle ruote di un’auto che passa a forte velocità. Dalle finestre di un appartamento si sente l’audio di una tv lasciata accesa con il volume troppo alto. Si distingue la voce stridula di Mara Maionchi che si sovrappone all’accento livornese di Cristiano Lucarelli, infine irrompe la parlata saccente di Enrico Varriale. Un silenzio innaturale piomba sulla piazza, una folata di aria gelida si insinua tra gli edifici. È solo un istante ma sembra durare un’eternità.