24 maggio 1995, Vienna.
Il diciottenne Patrick Kluivert, da poco subentrato a uno spento Litmanen, realizza all’ 85° la rete che decide la finale di Champions League, proprio sotto lo striscione delle Brigate Rossonere, che da lì impareranno a odiarlo di un odio sempre diverso.
5 marzo 2015, Land Curaçao (olandese)/ Pais Kòrsou (papiamento)
La federazione calcistica locale annuncia l’ingresso nello staff di Patrick Kluivert. “Mr.Kluivert (…) è nominato come consulente, ma ha dichiarato che potrebbe passare al ruolo di capoallenatore”.
Che cosa sono vent’anni nella vita di un uomo? Che cosa è la gloria rispetto al sacrificio per la propria terra d’origine? Che cosa la paura? Che cosa un padre? Mentre saliva a due a due gli scalini verso l’olimpo del calcio con le giovanili dell’Ajax, nonostante il sorriso innocente e l’aura del predestinato, qualcuno deve aver instillato in Patrick Kluivert il dubbio di non essere all’altezza di quelle aspettative. Forse il padre Kenneth, calciatore originario del Suriname, magari spinto dall’invidia per il figlio-prodigio? O la madre Lidwina, proveniente appunto dall’isola di Curaçao, nazione costitutiva del Regno dei Paesi Bassi, lingue ufficiali Olandese e Papiamento? Patrick il predestinato, Patrick il nuovo Crujiff e Van Basten, figlio delle colonie di sua maestà, di fronte a quel successo ebbe paura e decise, forse, che solo l’abbraccio severo ma protettivo di un padre putativo lo avrebbe fatto sentire sicuro.
Quell’uomo fu Louis Van Gaal. Soltanto partendo da questo assioma incontestabile si può comprendere perché uno degli attaccanti più dotati della sua generazione, bello, spigliato, poliglotta e coi padrini giusti, abbia finito per allenare la nazionale di una piccola isola caraibica, 150esima nella classifica Fifa. Così si spiegano gli esordi stratosferici all’Ajax, sotto la guida di Van Gaal, e della pietosa stagione al Milan, dove Van Gaal non c’era. Così si spiegano gli anni buoni a Barcellona, sempre sotto la guida di papà Louis (tranne l’ultimo, il peggiore per Patrick) e il prolifico biennio in nazionale 2000-2002. Così si spiega, infine, il mesto strascico di stagioni singole, senza rinnovo, tra Newcastle, Valencia, Eindhoven e Lille, dove per l’appunto Van Gaal non c’era.
Forse è per questo senso di abbandono e disorientamento che nel 2008, quando ancora è un tesserato del Lille ma sente incombere lo spettro del ritiro, Patrick comincia a seguire i corsi da allenatore. All’AZ Alkmaar Van Gaal, sempre lui, gli propone di entrare nello staff della squadra. Alkmaar è il posto ideale, inizialmente deve limitarsi a dare qualche consiglio agli attaccanti (ne trae giovamento, tra gli altri, Graziano Pellé) e dal suo maestro imparerà moltissimo. Nel 2009 arriva lo scudetto, una gioia mitigata dalla logica conseguenza dell’addio dell’allenatore, cooptato dal Bayern. Senza il suo mentore per l’ennesima volta, Patrick inizia un nuovo, incerto vagare, resistendo solo pochi mesi prima di accettare la proposta del Brisbane Roar della A-League australiana. Certo il campionato è meno noto, ma è in netta crescita e stavolta il ruolo è quello di assistente allenatore. In autunno torna in Eredivisie, prima discretamente come allenatore degli attaccanti del Nec e poi, finalmente, come primo allenatore della squadra giovanile e delle riserve del Twente (vincendo il campionato di categoria).
Nell’estate del 2012 i suoi sforzi vengono coronati: Van Gaal, appena nominato ct dell’Olanda, lo vuole al suo fianco. I due passano altri due anni insieme, culminati con l’onorevole terzo posto in Brasile. Patrick si gode il nuovo lavoro, tutto sommato privo di significativi rischi e le sue nuove passioni, Twitter e Instagram, con cui si tiene in contatto col mondo. Dopo il mondiale brasiliano, però, il Manchester United chiama Van Gaal il quale, come è logico, come assistente sceglie Ryan Giggs. In nazionale torna Hiddink e Kluivert è di fronte a un bivio. Tentare l’avventura da solo? Fare il Tassotti per tutta la vita? Ci vorrebbe qualcosa di non troppo rischioso, per non bruciarsi. Meglio continuare con un passetto alla volta. Intanto passano i mesi. Sui social network Patrick è attivissimo: perlopiù messaggi d’auguri, foto ricordo con ex compagni, immagini di cani e tante, troppe foto dei figli. Il 4 ottobre, per la giornata mondiale dell’animale, è al canile comunale insieme al figlio piccolo e lancia un messaggio per non abbandonare gli amici a quattro zampe.
I mesi passano, le apparizioni in tv si moltiplicano. Il 13 febbraio 2015 posta, estasiato, foto di elefanti ammirati nel suo viaggio in Tanzania. Di passaggio in Africa, si spende per la causa degli albini, gravemente discriminati. Però Patrick sa anche che si deve sbrigare, rischia di far passare una stagione lontano dal campo e queste cose si pagano, basta guardare Seedorf. Il 5 marzo arriva la notizia bomba: Patrick Kluivert sarà il nuovo commissario tecnico della nazionale di Curaçao nel suo cammino verso i mondiali di Russia 2018. Il sito della federazione di Curaçao usa espressioni ambigue: “Kluivert è parte del team che preparerà la selezione nazionale di Curaçao alle loro prime partite contro Montserrat nelle qualificazioni ai mondiali 2018 (…). Mr.Kluivert (…) è nominato come consulente, ma ha dichiarato che potrebbe passare al ruolo di capoallenatore”. L’account twitter di Patrick tace. L’8 marzo una foto lo ritrae, in splendida forma, mentre pattina sul ghiaccio in una bella giornata di sole. Di Curaçao, niente. Forse sta cercando di tenere separate le due identità: da un lato l’ex calciatore di bella presenza, gradito ospite d’iniziative benefiche e telecronache. Dall’altro capo del mondo, allenatore. Due mondi che non si toccano. Ma sono segreti difficili da mantenere. I dubbi si moltiplicano: “Ma è vero che sei allenatore di Curaçao?”, “E poi tu non eri del Suriname?”, “Ma niente di meglio sei riuscito a trovare?”.
Il 18 marzo la maschera cade: Kluivert comincia a parlare del suo nuovo ruolo, inizialmente ritwittando una sua intervista al sito della Fifa. Nei mesi successivi l’equilibro tra i tweet legati al suo ruolo da ct e i suoi commenti mondani è schiacciante: questi ultimi sono una valanga, quelli su Curaçao molto contenuti. Anche perché contenuti sono gli impegni. Si comincia col primo turno di qualificazioni, andata e ritorno con Montserrat, cinquemila abitanti. 2-1 all’andata, 2-2 al ritorno. Poi due promettenti amichevoli vinte col Suriname e Trinidad & Tobago, prima del secondo turno con Cuba, superata grazie ai gol in trasferta: 0-0 in casa, 1-1 fuori. Tra le due partite c’è tempo per un tweet nel quale si dice soddisfatto per il partenariato siglato tra la sua nazionale e lo stilista olandese Cavallaro Napoli. Il terzo turno, contro Salvador, inizia con una sconfitta all’andata per 0-1 e finisce, l’8 settembre, con un’altra sconfitta con lo stesso punteggio. I sogni mondiali di Curaçao finiscono poco dopo l’alba. Su twitter di Patrick glissa paurosamente sull’accaduto, limitandosi a un retweet di un messaggio del portiere Eloy Room, ma si esalta nel segnalare un articolo in olandese che celebra i gol di suo figlio Justin, classe 1999. Smaltita la delusione mondiale, Kluivert chiude la sua esperienza da capo allenatore, rimanendo in contatto con la federazione di un paese cui rimane molto legato. Dieci giorni dopo la sconfitta trova conforto in famiglia, improvvisando un travestimento alla Jackson Five con parrucche afro e vestiti anni ottanta e rilanciando prontamente il balletto su Instagram.
La vita, insomma, continua per Patrick Kluivert, che dalla vita ha avuto tutto: una grande carriera da calciatore, una famiglia stupenda e ora anche un’esistenza dopo il calcio giocato. Ha dimostrato al padre naturale (col quale i rapporti, a giudicare dal profilo instagram della moglie, sono ottimi) di sapersela cavare anche da allenatore e adesso può concentrarsi sulla famiglia. O forse la verità, anche se Patrick non la dirà mai, è che il calcio gli interessa fino a un certo punto e che Van Gaal è un padre troppo esigente. Di sicuro gli interessano la sua splendida famiglia, la difesa degli animali abbandonati e la causa degli albini africani. Ma forse il pallone è solo l’unica cosa che sa fare e che gli dà da vivere, non quella che gli da felicità, anche se ancora la gente per strada lo riconosce, le tv arabe lo invitano come opinionista e il presidente della federazione di Curaçao quasi si metteva a piangere quando ha accettato di entrare in nazionale. O magari il calcio gli interessa ancora, solo che non ha fretta e vuole godersi la vita che si è perso quando a 18 anni vinceva coppe e scomodava paragoni. Forse ha visto la fine di Gullit, Rijkard, Van Basten e Seedorf, in Cecenia, Arabia Saudita, retrocessi al ruolo di vice o disoccupati dopo che gli avevano messo in mano da subito il Chelsea, l’Olanda e il Milan. Certo per i mondiali avrebbe fatto un’eccezione. Arrivarci con Curaçao sarebbe stato bellissimo. Ma semmai ci può tornare da opinionista. E poi mancano ancora tre anni, un’eternità. Van Gaal ha detto che dopo il Manchester vuole chiudere, ma lui lo conosce bene, sa che non è possibile. E se dovesse essere chiamato da qualche nazionale, anche un’africana o un’americana (soprattutto un’africana o un’americana) un posto come assistente per lui ci sarà sempre.