Les Corts era il nome, oltre che del cimitero, anche del vecchio e longevo campo del Barcellona. Il nome lo prendeva dal quartiere, un ex comune assimilato alla città nel 1899. Ora il campo non c’è più, demolito nel 1966 dopo essere stato sostituito dal Camp Nou, il quale proietta la sua ingombrante ombra sui sepolcri dei propri eroi. Contrariamente al Cementiri de Montjuïc, che è anche molto più grande, qui trovare un defunto è molto semplice. All’ingresso vi è un pannello con uno schermo touch sul quale è possibile digitare il nome della persona che si sta cercando. Ed ecco apparire in pochi secondi il numero di tomba e una mappa del cimitero con il percorso necessario a giungervi. La pianta è divisa in sei settori, a ognuno dei quali è assegnato un colore. Quelli dall’1 al 3 sono dal lato di Avinguda Diagonal che costeggia il Palazzo Reale, i restanti dal lato di Avinguda de Joan XXIII che circonda il Camp Nou. Di lì a pochi metri vi è l’ingresso al villaggio del Barça, sempre aperto alle visite, dove si trovano migliaia di gadget in vendita, la possibilità (pagata salatamente) di entrare allo stadio, la sede legale, varie bancarelle ufficiali e un immenso negozio. I tagli dei capelli dei commessi sono tutti ben curati e perfettamente funzionali, molto simili a quelli di Xavi Hernández e Sergio Busquets. Poco oltre, dentro il muro di cinta, il memoriale dedicato alle personalità care al club. Joan Gamper e Sandor Kocsis invece furono sepolti a Montjuïc ma, probabilmente, il fatto che là vi sia un memoriale ai caduti nella guerra civile di parte repubblicana non lo rende il posto adatto per uno come Paulino Alcàntara, che la guerra l’ha combattuta sul fronte opposto, quello dei nazionalisti di Franco. Donde gli sia nato questo sentimento per la nazione spagnola è difficile a dirsi, data la sua provenienza: padre catalano e madre filippina, incontrata mentre era di stanza nell’arcipelago asiatico con l’esercito.
Il ritorno in Catalogna avvenne all’età di tre anni e nel 1910 cominciò a giocare nell’FC Galeno, dove proprio Gamper lo notò. Per entrare a Les Corts bisogna passare davanti all’obitorio con le camere ardenti, la cui descrizione suona come un eterno monito: “El Tanatori Les Corts forma parte de la vida de la ciudad”. Paulino fece chiaramente sentire la sua voce all’esordio con la maglia blaugrana il 25 Febbraio 1912, a soli 15 anni: segnò una tripletta nel 9 a 0 al Català SC ed è tutt’ora il giocatore più giovane ad aver segnato all’esordio nel club. Quell’anno le “sue” Filippine stavano per uscire sconfitte dalla guerra contro gli Stati Uniti. La rivoluzione dei filippini contro la dominazione spagnola era cominciata nel 1896 su iniziativa del Katipunan (una società anti-coloniale repubblicana), proprio l’anno in cui Paulino nacque a Iloilo, 564 km a sud di Manila. Due anni dopo venne dichiarata l’indipendenza e gli Alcàntara fecero ritorno in Catalogna. Con il trattato di Parigi del 1898 che poneva fine alla guerra tra Spagna e Stati Uniti, la corona spagnola dovette cedere il territorio agli americani insieme a quelli di Guam e Porto Rico, oltre al riconoscimento dell’indipendenza di Cuba. Se a quell’età Paulino non poteva risentire in alcun modo del cambio di paradigma nella geopolitica coloniale, ebbe certamente modo di sperimentare il nuovo regime quando giocò a Manila per il Bohemian Sporting Club, vincendo i campionati tra il ’16 e il ’18 mentre, per volere del padre, studiava medicina. Il 10 Maggio del 1917 fece parte della selezione Filippina che ottenne la più larga vittoria nella storia della nazionale, infliggendo un pesantissimo 15-2 al Giappone allo stadio di Shibaura a Tokyo, durante la terza edizione dei Giochi dell’Estremo Oriente. Ancora oggi la federazione giapponese non riconosce quella partita come una gara ufficiale (il Giappone si vendicò 50 anni e 17 giorni dopo infliggendo alle Filippine la loro peggiore sconfitta, 15 a 0). Le Filippine si classificarono comunque al secondo posto (anche se il risultato è contestato), visto che la partita successiva contro la Cina fu interrotta dopo una scazzottata nata da un colpo del portiere filippino a un attaccante cinese, reo di aver appena segnato il gol del 4-0.
A quel tempo Paulino si era già guadagnato in Spagna il soprannome di “el romperedes” (lo spacca-reti) e aveva già vinto due Campionati catalani e la Coppa del Re. Il calcio nelle filippine invece andò perdendosi col passare del tempo, tanto che per molti anni, a cavallo con l’indipendenza dagli Stati Uniti nel 1946, non venne addirittura disputato alcun campionato ufficiale. Solo dal 2009 si è costituita una Lega unificata che organizza il campionato sul modello di quelli europei. Per dare un’idea, lo stadio più grande è il Rizal Memorial Stadium di Manila, che a fronte dei 12 milioni di abitanti dell’area metropolitana, conta solamente 12.000 posti a sedere. Alcàntara, l’uomo che spaccava le reti (come in uno Spagna-Francia del 30 Aprile 1922), la stella dei due mondi al pari dei compagni Zamora e Samitier, non avrebbe provato alcuna pietà per un campionato così poco nobile, dove non si respira altro che l’aria del dilettantismo di massa. Forse per questo, perché aveva intuito la caduta in disgrazia della sua terra natia, si dedicò al nazionalismo della sua seconda casa, la Spagna. Fu dopo aver contratto la malaria nel ’17 che decise di tornare a Barcellona. Il 13 Aprile 1919, nella vittoria per 6-0 in Coppa del Re contro la Real Sociedad, forse per disprezzo verso l’autorità catalana, un suo tiro centrò in pieno un poliziotto il quale, finito per caso sulla traiettoria, venne trascinato in porta assieme alla palla.
Vestiva sempre con un fazzoletto bianco che gli usciva dai pantaloni e aveva uno stile da modello. Tutto il contrario di Leo Messi il quale però, quando nel 2014 superò il record di Paulino di 369 gol con la maglia del Barça, si fece ritrarre mentre indossava una riproduzione della divisa dell’epoca. Contrariamente a Paulino, Messi si è potuto evitare la malaria, pericolosi trasferimenti transoceanici e non ha dovuto combattere guerra alcuna. La sua grazia si ferma sul campo da gioco mentre la gloria di Paulino andò oltre. Dopo una burrascosa stagione, nel 1924 abbandonò il club in seguito a un violento scontro con Gamper, ritornando in squadra solamente al termine della stagione successiva, acclamato dai tifosi e vincendo un altro titolo. Ritiratosi nel 1927 per proseguire la professione di medico, tornò nel club pochi anni dopo come dirigente. La differenza tra la carriera da calciatore e quella successiva è pari al contrasto che si vive sulla propria pelle nei pochi metri che separano l’ingresso del Camp Nou da quello del Cementiri: il primo monumentale, elegante, epico, giganteggia sulla zona e la relega a mero riempitivo del tempo cittadino in cui non si gioca. Il secondo umile, sobrio, orizzontale, trova una sua dimensione spirituale solamente nella collocazione all’ombra del gigante nella geografia cittadina.
Nel 1936 comincia la Guerra Civile Spagnola e Alcàntara si trova in vacanza a Vilassar de Mar, in procinto di varcare il confine con la Francia attraverso Andorra. A differenza di molti altri, non si accontentò della Francia come suo rifugio, né si diresse verso le Filippine di marca americana e di cui conservava la nazionalità. Rientrò invece in Spagna attraverso la Navarra e il 14 Ottobre si presentò come volontario alla Junta Carlista di Pamplona. Data l’ormai consolidata fama di urologo venne assegnato come sottotenente alla sezione medica e inviato all’ospedale militare carlista di Saragozza, l’Hospital del Salvador, dove rimane dal 19 Ottobre dello stesso anno fino al 10 Giugno 1937. Poi cambia ruolo. Con il primo battaglione del secondo reggimento dei carros de combate prende parte a diverse operazioni militari in Aragona. Il 13 Ottobre del 1937 infine entra a far parte delle Frecce nere, il corpo misto di italiani e spagnoli di truppe volontarie formato da Mussolini in aiuto a Franco. Agisce come tenente medico e rientra nella sua Barcellona con le truppe franchiste che la conquistano il 26 Gennaio 1939. Si compie così l’odissea personale di Paulino che, arrivato per la prima volta a Barcellona da filippino, ne esce da catalano per tornarvi nuovamente da spagnolo, questa volta con l’aiuto delle armi contro i socialisti e gli anarchici della Repubblica. Come le armi che quarant’anni prima il padre impugnava contro i repubblicani filippini. Spagna, Catalogna, Filippine: tre paesi per i quali Paulino ha vestito la maglia della nazionale di calcio.
Dopo la guerra, oltre a ricoprire vari incarichi amministrativi nella Spagna franchista, guidò anche la nazionale spagnola per tre partite. La sua vita superò quella del campo di Les Corts, che venne abbandonato nel 1957, sostituito dal Camp Nou, all’ombra del quale Paulino fu seppellito nel 1964. A pochi metri da dove aveva ottenuto i suoi successi sul campo, prima di calcio, poi di battaglia. Il suo sepolcro tutte queste cose non le racconta. Spoglio e pudìco come tutto il cimitero, ai piedi del gigante che lo oscura, non ha fiori a tenergli compagnia, al contrario della tomba al suo fianco. Come i baranggay più periferici di Iloilo City al cospetto della moderna Barcellona. Forse quelli della squadra giusta, la sua squadra giusta, gli hanno fatto pagare una vita che a un certo punto ha preso la direzione sbagliata. Al contrario di quella di Ladislao Kubala, che dalla sua ha i fiori e una statua ai piedi del Camp Nou. L’unica statua di Paulino è a Manila, di fronte alla sede della poco gloriosa Federazione Filippina. Ma lui, lì, non c’è mai voluto tornare.