Scimmia d’amore e di follia

Scimmia d’amore e di follia
12 Agosto 2015 scat

“Zucchero zucchero, con un tuo sguardo dammi un brivido, 
abbracciami rock che allora sei top.
E appena il sole va giù ti prego fermati nell’angolo più buio che c’è,
abbracciami che ho supervoglia di te.”

Agosto, 1996

L’occhio di Gabriel Omar Batistuta riflette l’obiettivo della telecamera. “Te amo Irina, te amo”. Ripetere, come ce ne fosse bisogno. Ribadire, insistere fino alla fine, prima che alle spalle arrivino i compagni e tutto questo si trasformi nel solito festeggiamento disordinato. L’occhio fisso sul vetro e sul suo riflesso, il grido d’amore che è preciso e allo stesso tempo imbizzarrito. Sono pronto per il campionato, Irina, non sono mai stato così forte. Il campionato più bello del mondo, niente scimmie spagnole né gorilla inglesi. Irina Fernandez aveva soltanto 15 anni la sera della festa da ballo di Reconquista. Il grande amore, il tiro potente, con una rincorsa che per un attimo lascia presagire una traiettoria timida, a giro, ma poi la palla quasi non si muove dalla sua linea retta. È un colpo di mortaio, dritto nel sette. L’occhio di Batistuta quasi si schiaccia contro la telecamera, la vuole sfondare come sfonda la rete, Bati sfonda la rete. L’occhio proteso oltre la lente e oltre l’aria e verso Irina, ti amo e non ti lascerò mai. Come l’occhio e come il tiro, il mio amore è fiammeggiante, sudato, senza confini. Forza bruta, amore selvaggio, freccia infuocata scoccata da lontano ma implacabile e puntuale. Dietro ogni uomo c’è una donna. Dietro le spalle di Batistuta c’è il vento di fuoco. Non finirà mai, non può finire, consumami fino all’ultimo tizzone.

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Agosto 1967

L’occhio di Paolo Barison riflette il volto allungato e liscio di Gioacchino Lauro, il rinnegato, l’interdetto, presidente del Napoli. Morirai per lei? “Senti Barison, non siamo scimmie, non c’è bisogno di fare chiasso. Facciamo a capirci. Pesaola non è convinto, ma Altafini ti vuole con noi, ti vuole assolutamente. Devi ripagare l’investimento, mi raccomando non pensare che a 31 anni vieni qui a prendere il sole. Ti vogliamo al massimo”. Barison il bisonte ha il vizio del gol e in area si fa largo con le spalle e con i denti. È venuto a parlare col presidente e sperava tanto, sognava un altro salto di categoria. Il Napoli è una squadra vera, da settembre si fa sul serio. Ma ora ha sentito il nome che non voleva sentire, non adesso, non così presto. Altafini. Morirai per lei? La madre dei suoi figli, la donna della sua vita e della sua casa. È davvero soltanto una trappola? Devo venire a Napoli a farmi strappare la donna da un brasiliano? Non posso rifiutare, il momento di rifiutare è passato. Passerà anche questo mezzo amore di Annamaria? Tornerà da me? Andremo insieme al mare, porteremo anche i bambini. Segnerò tutti i gol che non ho ancora segnato, accentrandomi da sinistra, andando a prendere il traversone puntuale come la notte d’amore del lunedì mattina, dopo la Gazzetta, prima dell’insalata. Tornerà da me? Resterà con lui? Morirò per lei? Andrò più veloce di Altafini, in campo e in città e sulla strada. Guiderò la mia auto senza paura, fino a quando non avrò la risposta che cerco. È solo un momento di sbandamento, il matrimonio è sacro, le sue pareti la terranno dentro di me, lontano da lui. Più lontano di oggi, almeno, sempre più lontano. Non posso rifiutare, sono fregato.

Agosto 1993

L’occhio di Gigi Lentini riflette l’asfalto dell’autostrada A21 Torino-Piacenza. Davanti all’occhio ciondola un ciuffo sottile e liscio, nero e ingellato. Ogni tanto la vista viene smezzata dalla plastica grigiastra di un telefono cellulare. Sto arrivando, Rita. L’occhio trema per la velocità sfrenata. Il telefono trema e trema anche il ciuffo. Ma non trema la mano sul volante. Non temo nulla. “Amore sto a 200 all’ora col ruotino, sto arrivando”. La moglie di Schillaci ma me ne frego, Schillaci è già finito e io comincio adesso. Voglio la nazionale, voglio correre su quella fascia destra e mangiarmela come adesso mi mangio questa strada di merda e la notte con lei. Sto arrivando, col ruotino e la bocca piena di saliva e di passione. Rita era destino e il destino doveva compiersi adesso. Voglio prendermi tutto, ad arrivare ci metto un cazzo. Rita da questa notte non vado più via, non adesso, adesso corro come un pazzo mentre la macchina trema e mi tremano anche le gambe. La testa incassata nelle spalle e nell’abitacolo, la gobba di una scimmia impazzita e fuori controllo. Il ruotino che potrebbe anche cedere ma non cederà mai, come non cederanno mai le ginocchia e come non potranno mai fermarmi i terzini e nessun altro. Un babbuino lanciato per salti verso l’accoppiamento, accoppiamento che è amore a tavoletta. 150 all’ora, 170, duecento. Le gambe di Lentini tremano, il jeans è troppo stretto sul pacco, il gel gli attacca il ciuffo alla pelle sudata della palpebra. Non devo nemmeno guardare la strada, so dove sei e sto arrivando.

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Giugno 1999

L’occhio di Gianluca Zambrotta riflette un seno strepitoso. “Piacere”, e come faccio a dire un’altra cosa, sembro già un cretino. Lei sorride in un vestito tagliato per essere adatto a un matrimonio ma che non può nascondere la spinta languida. Un seno che non si era mai visto prima. “Mi piacciono i tuoi occhi”, e chi ci crederà mai? Se le dico quello che penso sembro solo una scimmia eccitata, se non lo dico sembro un bugiardo. Si è già accorta che la sto guardando lì? Era sicura che avrei guardato prima ancora che guardassi? Questa notte non torno indietro. Un vestito tagliato per non fare danni, per brillare in seconda fila. Ma non con quel seno. Questa è la notte che darà il profumo al resto della mia vita. Non posso smettere di guardare, è bellissimo. L’amore stringe sul dettaglio quando il dettaglio è un’indulgenza divina. “Mi piacciono le tue gambe storte”, voglio amare le tue tette per il resto della mia vita. Puoi per favore non respirare così? È già difficile senza il respiro. Smettiamo di respirare per un attimo, lascia che io mi avvicini e possa pensare di toccarle. Un millimetro dopo l’altro, come un anticipo secco sulla sinistra e poi a rotta di collo verso la porta avversaria, sempre in anticipo di un millimetro, fino a toccarle e stringerle ma non troppo. Davanti a questa cosa non ci sono retropassaggi, non c’è ricerca della perfezione della curva tagliata verso il centro dell’area. Davanti a questo c’è solo lo schianto contro un muro morbido di perdizione, fino alla fine. Stringimi forte, fammi sentire che anche tu mi ami, sbattimi le tette in faccia, vieni con me e trasformami. Resterò giovane al tuo fianco ma la verità è che non sarò mai al tuo fianco, starò sempre e solo davanti a te, pelo contro petto, contenimento e ripartenza, sostegno imponente e fa che non sia tutto soltanto un sogno.

Giugno 2012

L’occhio di Andrew Hall riflette una pozza di sangue con una ragazzina in mezzo, immobile. Cosa ho fatto? Megan ha 15 anni e non ne compirà 16 perché è morta, 60 coltellate, cosa ho fatto? In mezzo al sangue, avrei dovuto passare i prossimi anni in mezzo al campo e invece sono qui. Non posso chiamare nessuno. Forse non mi aveva tradito, forse è tutto sbagliato. Ancora più sbagliato. Andrew Hall vorrebbe chiamare qualcuno ma non sa chi chiamare. Ha la maglietta sporca di sangue e l’estate è appena cominciata. Il primo contratto firmato e già qualcuno parla di troppe birre al pub e della forma che non è quella che dovrebbe essere a 18 anni e soprattuto lei è morta davanti ai suoi occhi e sotto le sue mani avvinghiate al coltello. Ho ucciso una persona, ma perché proprio questa persona? Forse non è così che avrei dovuto rimetterla in riga. Il portiere del palazzo può aiutarmi, mi ha sempre voluto bene. Non voglio andare in galera, voglio dirle che adesso le credo, adesso ho capito che vuole solo me ma non voglio toccarla, appena arrivano dovranno esaminarla subito. Andrew accende una sigaretta ma il sangue gli entra violentemente nelle narici. Sono ancora la tua scimmia, tu sei quella giusta per me perché non vuoi vedermi con i capelli lunghi e i tatuaggi. Da quest’anno guadagnerò un sacco di soldi, ti porterò ad Acapulco. Anche così, anche sfregiata ti amo lo stesso. Sono la tua scimmia, a volte perdo la testa ma tu mi ami anche per questo. Il portiere mi ha sempre voluto bene, mio padre è fuori per lavoro e in questo posto di merda piove sempre. Forse devo nascondere il coltello.

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Agosto 2014

Nell’occhio di Gabriel Omar Batistuta è riflesso il tetto grigio di una camera d’albergo. Fuori dalla finestra passano le macchine e fanno il rumore del vento, a singhiozzo. Fa caldo, sotto la finestra c’è un parco e dentro il parco ci sono i grilli, che scompaiono quando passa una macchina e riappaiono subito dopo, con gentilezza. Batistuta deve andare al cesso ma le sue caviglie fanno un male tremendo. Non c’è più niente di soffice e protettivo, sotto la pelle. Solo le ossa che sfregano le une contro le altre. Un dolore infernale. Il bastone accanto al comodino, una piramide di antidolorifici. Non riesco più a camminare, voglio pisciarmi addosso, come ho fatto ad arrivare fin quassù? La strada, sotto, sembra lontanissima, lontana quanto il cesso. Il muro grigio si illumina del rimbalzo dei fari. La vescica preme. In casa non c’è nessuno, ormai da mesi. È tutto finito. Niente più capelli, niente più cannonate, niente più luci potenti dello stadio. Soltanto un appartamento dove nascondersi e un dolore come quello di uno schianto tra ossa che non dovrebbero nemmeno sfiorarsi. Come due navi enormi che si spaccano a vicenda e poi si guardano affondare. Passa un’ambulanza, i grilli del parco scappano per sempre, si fanno schiacciare in mezzo alla strada. Batistuta afferra il bastone prima ancora di tirare su la schiena, prima ancora di mettere alla prova la sua paura del pavimento. Un dolore antico, che sembra sia sempre stato lì. Perché in casa non c’è più nessuno? Dove è andato a finire il pallone? Batistuta alza lo sguardo. Ti amo, Irina.

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