La Società ringrazia l’allenatore per il lavoro fin qui svolto con professionalità e serietà, e gli augura le migliori fortune umane e professionali nel prosieguo della carriera.
In principio fu la sciarpa al collo, le battute in conferenza stampa, le foto coi tifosi.
Pochi mesi dopo la sciarpa è un cappio, le battute una litania di alibi e lamentele, le foto sono collage irriverenti e grotteschi. Era arrivato carico di aspettative, fra la curiosità dei giornalisti locali: “difesa a tre o a quattro non importa, nel calcio gli schemi sono relativi, è un gioco dinamico, conta la mentalità”. Alla fine conteranno di più la pioggia, il terreno di gioco, il campo d’allenamento, il sole negli occhi, i tacchetti sbagliati. “Ci mancavano molti titolari. Loro sono più avanti nella preparazione.” Sono sempre più avanti, loro. A inizio campionato “i carichi di lavoro si fanno sentire”, a metà campionato “giochiamo tre partite a settimana”, a fine campionato, se ci arriva, “abbiamo dato tutto, non avevamo più benzina”.
Il presidente lo ha accolto in macchina, lo ha portato al ristorante. Ha fatto di tutto per farlo sentire a casa. Ma è una casa lussuosa in cui lui, cresciuto in provincia, ha paura di dire la frase sbagliata, di parlare di politica. È rigido, composto, con la paura di rompere la bomboniera di cristallo della comunione di un figlio obeso, o di un figliastro indisciplinato. Il mister è un po’ goffo, cerca di passare per un vincente, per un saggio, ma il più delle volte sta zitto perché non sa che dire. Gli hanno insegnato a dire poche cose, e non vuole distrarsi per non dimenticarle: testone giù e lavorare, parlano i fatti.
Nella casa fuori città, dove ha parcheggiato la moglie e i figli, l’ingresso è pieno di cestini: pasta locale, olio locale, vino locale, pacchi di caffè, come se ci fosse la guerra. Ormai ha dismesso il cappottone portafortuna della promozione e il baffo è diventato un sottilissimo e mefistofelico pizzetto. Si è fatto una lampada per sembrare più giovane, indossa una collanina, bene in vista sotto la camicia. La catenina è stretta attorno al collo taurino ormai cadente, un tempo atletico e muscolare. Più giù ci sono una madonnina, i Santi Medici, l’ampolla di acqua santa. Il patron è noto per essere bizzoso, volubile, una volta ha persino detto col suo accento lucano: “Gli allenatori sono come le donne: prima del matrimonio fanno tutto e poi hanno sempre il mal di testa. Dovrebbero fare come i direttori d’azienda, invece, che si inseriscono senza modificare i piani societari esistenti”.
Eppure stavolta dice di volergli lasciare carta bianca, anche sul mercato. “Voglio essere come Ferguson, come Ferguson, come Ferguson”. E invece. Presto diventa una moglie mal sopportata, brava solo a lamentarsi e cercare scuse. “I soldi della spesa non mi bastano, l’organico non è all’altezza”. Il vice e il quarto uomo sono gli unici che lo stanno ad ascoltare, ormai.
In provincia tutti lo trattavano come un vate, un mago della tattica. I giocatori lo consideravano un padre. Allenatore come un padre, che ti ascolta mite ed autorevole, allenatore come un nonno, che ti rimprovera severo, che la sa lunga, maestro di bastoni e carote. Allenatore come uno zio, che ti fa ascoltare i dischi giusti durante l’allenamento e sa suonare la chitarra. “Lui non è come gli altri, lui ci capisce”, dicono i calciatori. Fino a quando uno di loro si alza dal lettino per gli addominali e lo mette in imbarazzo davanti a tutti, abbassando il volume: “qui non siamo in provincia”. Allenatore fratello maggiore, ma pur sempre allenatore. Difficile mantenere la distinzione dei ruoli, ha smesso di giocare da poco, il capitano ha quasi la sua stessa età. Mettere fuori squadra il capitano, e tutti quelli che gli remano contro. Ammutinamento: la squadra ora gioca per perdere. Sfuriata alla stampa: queste cose piacciono all’ambiente. Grida strozzate, pugni sul tavolo, voglio quel panettone.
Mercato di riparazione: “vogliamo solo giocatori pronti, che possano innalzare il livello della rosa”. Una rosa piena di spine, gli acquisti di gennaio sono tutti rotti e vengono dal lentissimo campionato portoghese. Panettone agguantato con un pareggio col Chievo, e ingoiato voracemente. Il solito pareggio col Chievo, quasi un monito esistenziale, nel caso si fosse montato la testa. Nemmeno il tempo di deglutire e con la bocca piena di briciole: “Sento la piena fiducia del presidente”. “Il mister non è in discussione”, dolcissimo e letale bacio della morte.
I numeri che diceva e forse davvero credeva non contassero, ormai si accumulano nella testa come le frasi ripetute all’infinito da un folle.
433: imponiamo il nostro gioco.
424: non esiste.
442: ci serve più copertura sulle fasce, rimaniamo propositivi. Ma la coperta resta cortissima. Arrigo beffardo mi guarda dall’alto.
352: ormai lo fanno tutti, perché io no? Facciamo densità. Suona bene.
532: ho paura, gli occhi della morte, Nevio aiutami tu, con le tue sopracciglia austere, veglia su di me.
4312: non dite che ho paura, metto il fantasista.
4141: sono confuso. Ho freddo.
Ultima stazione, 4231. Ora saranno contenti, quelli che dicono che sono un difensivista.
Si, gioco a una sola punta, ma ho i tre trequartisti. Il 4231 mi avvolge, mi protegge dalla stampa. Mi fa sentire sicuro, con i due mediani. Buttiamo la palla avanti, ci pensano quei tre, e la punta prima o poi si sblocca. Il presidente è contento, faccio giocare l’uruguagio, il brasiliano e lo svizzero, magari facciamo una plusvalenza. Traghettatore non avrai il mio scalpo. Caronte inverti la rotta, io non mi dimetto.
Esonero.
Ora siede sul divano in ciabatte, e guarda la squadra finalmente giocare, segnare, vincere. Passano le settimane. Esaurisce i complimenti per la sciapa cucina dietetica della moglie, rimpiange dannatamente il minestrone del supercorso ai tempi di Coverciano. Rilascia un paio di interviste: “certo il campo mi manca, ma vado in bici con Guidolin”. Sente i suoi maestri: Carletto, Nedo, Giovanni. Gli dicono di aggiornarsi, di fare un giro in Inghilterra, dove sembra che si imparino numeri diversi. Marcello lo critica alla televisione, altri scrivono BOLLITO.
Squilla il telefono: è il Patron. Prima di accettare pensa: “stavolta non mi faccio fregare, stavolta ho il coltello dalla parte del manico”. Torna in panchina più saggio, il panico è passato, ha scoperto il buddismo, non gli serve più l’acqua santa. Il calcio è questo, la palla è rotonda, nel nostro mestiere contano i risultati. Ripete il mantra a se stesso e agli altri. La palla continua a rotolare, tutto è ciclico.
La Società ringrazia l’allenatore per il lavoro fin qui svolto con professionalità e serietà, e gli augura le migliori fortune umane e professionali nel prosieguo della carriera.