Articolo originale di Grégory Schneider per Libération
“Dopo vent’anni sul campo ho deciso di lasciare il calcio professionistico. È stato un viaggio incredibile”. Martedì 16 dicembre, con poche parole, un monumento del calcio francese si è ritirato: Thierry Henry, 37 anni, 123 gettoni coi Bleus e 51 gol, un record, oltre a 411 presenze in club sparsi su tutte le latitudini, compreso il campionato americano, raggiunto nel 2010 per il gusto del bel gesto (New York, Manhattan e i loft) e sulla scia di un mondiale sudafricano segnato dallo sciopero dei giocatori e la totale frammentazione dell’élite calcistica transalpina. Un mondiale che non doveva disputare (era cotto) ma che concluderà “rovesciando” il selezionatore Raymond Domenech.
Henry fece rapporto sulla questione appena atterrato dall’aereo, ricevuto negli uffici dell’Eliseo da Nicolas Sarkozy, da solo e alle spalle dei compagni. Fu meno loquace in seguito, negoziando il suo silenzio sui fatti di Knysna (la città sudafricana dove si trovava il ritiro della nazionale francese durante i mondiali 2010), in cambio di interviste che concedeva col contagocce, alimentando la leggenda di un allontanamento dalle scene splendido e isolato, alla Greta Garbo. Ma essendo la mediatizzazione del calcio quella che è, siamo comunque riusciti a ricevere dei segnali nel corso di questi ultimi quattro anni. Quasi come una specie di luce, percepita dalla Terra, di una stella già morta. Le partite del campionato nord-americano, la vivacità di un palombaro e le fughe vigliacche verso le retrovie. Un tizio che finge di impegnarsi nella circolazione del gioco perché là davanti non tocca più palla per mancanza di mobilità. Le lacrime, di cui non si è mai capito il significato, versate davanti alla sua statua in bronzo inaugurata una limpida mattina del dicembre 2011, davanti a quell’Emirates Stadium dove si è esibito con il suo Arsenal dal 1999 al 2007. Ma anche alcuni, rari gesti venuti da più lontano, dalla sua vita precedente: quei piattoni di destro calciati dall’ala sinistra a filo del palo lontano, un gesto che ormai scatena i commenti pavloviani di “colpo alla Thierry Henry” sulle televisioni francesi e britanniche.
Dimostrazione. L‘uomo di Ulis (nella regione dell’Estone) si è dedicato molto presto alla costruzione del proprio mito, soppesando ogni scelta della sua carriera e ogni intervento pubblico come parte di un tutto più grande. Due esempi vengono dal Mondiale tedesco del 2006, senza dubbio il suo capolavoro, quando fu il suo compagno di squadra Willy Sagnol a lanciare l’allarme due giorni prima di una finale che avrebbe visto i francesi soccombere alla durezza degli italiani (con Henry ko fin dal primo minuto di gioco) e al “colpo di testa” di Zidane: “Bisogna che qualcuno lo dica: se Thierry Henry continua a giocare altri tre mesi con l’intensità che sta mettendo in ogni partita qui in Germania, dovrà dire addio al calcio”.
Primo gesto: un allenamento ad Hannover aperto alla stampa per un quarto d’ora, nel quale Henry spiegava a un Franck Ribery, che allora aveva solo cinque presenze in nazionale alle spalle, come effettuare un particolare gesto tecnico: una magia del piede che passa al di sopra del pallone, che le televisioni tedesche trasmettevano in continuazione. Ribery ci si era messo di buona volontà ma senza riuscirci, sotto gli occhi di un attento Henry, ma solo finché il servizio d’ordine aveva fatto evacuare lo stadio perché i francesi potessero allenarsi a porte chiuse: avendo dimostrato la propria superiorità tecnica davanti a un gruppo di testimoni, il gunner si era allora disinteressato a Ribery il quale, non capendo il senso della cosa, continuava l’esercizio col pallone che gli aveva indicato il suo mentore.
Seconda scena: conferenza stampa dopo Francia-Spagna 3-1, ottavi di finale. Henry si attribuisce, sorprendendo un po’tutti, parte del merito del pareggio di Ribery il quale, essendosi preso in quel momento il ruolo della stella emergente, era chiaramente oggetto degli attacchi dello stesso Henry. Un tizio aveva protestato: “Ma cazzo, come può essere merito tuo se in quell’azione eri in fuorigioco di dieci metri?”. Henry non ha battuto ciglio: “È proprio perché ero in fuorigioco che Franck ha potuto segnare. Guardate bene l’azione: manca un metro a Puyol per riuscire a opporsi al tiro di Ribéry. E quel metro lì, sono io che gliel’ho preso”. Una dimostrazione che ne vale dieci: freddo, clinico (la visione attenta del gol gli dà ragione), con quel pizzico di condiscendenza che mostra al contempo la sua sapienza e la distanza che esiste tra il giocatore d’élite e un beota qualsiasi.
Mano. Questa distanza fu il grande affare di Thierry Henry. E forse il suo dramma, che emerse nel novembre 2009, in seguito al suo tocco di mano contro l’Irlanda (1-1 dopo i supplementari) che mandò la Francia a un mondiale sudafricano che avrebbe fatto meglio a non disputare. Va ricordato che il dopo-partita fu molto duro: l’economista e scrittore Jacques Attali richiese una “esclusione a vita” del calciatore, il conduttore Christophe Dechavanne spiegò che gli era impossibile educare dei ragazzi in un mondo dove un calciatore controlla il pallone con la mano e il filosofo Alain Finkielraut fece dell’introduzione della prova tv “una questione di pubblica sicurezza”. Thierry Henry, quanto a lui, era rimasto in silenzio. Prima di cedere alle pressioni e richiedendo in maniera goffa, e per salvare l’apparenza, che Francia-Irlanda fosse rigiocata. In seguito, si espresse in maniera più chiara: “Mi sono sentito solo. Veramente solo. A un certo punto, ho creduto di aver fatto qualcosa di grave”.
Il giocatore è morto in quel momento. Vincitore della Champions col Barcellona di Samuel Eto’o e Lionel Messi sette mesi prima, è sparito dalla squadra blaugrana dalla sera alla mattina, attirandosi il cinico commento dell’allora allenatore dei catalani, Pep Guardiola: “Affinché io possa credere in Henry, bisognerebbe intanto che Henry credesse in sé stesso”.
Nell’ora dei bilanci, è questa immagine del novembre 2009 che rimane impressa, ed è sicuramente l’unica volta in cui il giocatore, spinto dalla follia imperante ad uscire a deviare dalla strada tracciata, ha dato qualcosa di sé che non aveva niente a che vedere con il mito, o con l’edificazione di questo mito.
Per il resto, per saperne di più, ci si è sempre dovuti arrangiare. Sorvegliando quel che Therry Henry diceva degli altri, sperando che facesse trapelare anche qualcosa di sé: “Nicolas Anelka ha capito molto presto che il calcio era in realtà uno sport individuale, contrariamente a quanto ci hanno propinato fino allo sfinimento da molto tempo”: vademecum di una carriera in cui Henry ha talvolta richiesto la testa di un compagno di squadra, come David Trezeguet che, durante Euro 2004 in Portogallo, gli rubava spazio vitale e palloni in attacco. Oppure riguardando le partite e osservando i dettagli, a cominciare dai calci di rigori battuti dai Bleus nei quarti del “loro” Mondiale ’98: un ragazzino di 20 anni che si presenta sul pallone con la responsabilità schiacciante di un Mondiale in casa mentre uno dei senatori, e non il meno importante, si è precauzionalmente tolto le scarpe per essere sicuro di non essere spedito al fronte da Aimé Jacquet.
Triumvirato. Si può anche provare a immaginare la fantomatica conversazione che ha preceduto il ritorno di Zinedine Zidane in nazionale nell’agosto 2005: il “maestro” che convoca Henry nel salone privato di un grand hotel per spiegargli che avrà un posto a tavola coi grandi, ovvero Lilian Thuram, Claude Makelele, Willy Sagnol e Fabien Barthez, al momento in cui si farà la squadra. Ma perché ciò accada occorre che lui, Zidane, senta in ogni intervento di Henry la chiara consapevolezza che il gunner dell’Arsenal, nel momento in cui ha tenuto lo scettro in mano durante il primo ritiro del giocatore del Real Madrid, ha fallito.
Una discussione che, sia detto di sfuggita, restituisce ad Henry la sua giusta collocazione nella storia del calcio francese: non al livello del triumvirato Kopa- Platini- Zidane, come ha dichiarato goffamente Sagnol qualche settimana fa, ma appena al di sotto. Il motivo è senza dubbio legato a dei limiti ontologici: abbiamo sentito molti giocatori e allenatori che, nel corso degli anni, gli hanno riconosciuto delle capacità di partenza molto inferiori a quelle di un Anelka o di un Trezeguet, due giocatori con cui ha ottenuto il titolo di campione europeo Under 19 nel 1996. Eppure la carriera di questi altri due resterà incomparabilmente meno importante di quella di Henry.
Arriva sempre il momento in cui un giocatore diventa l’immagine che si fa di sé stesso.