Non c’è da meravigliarsi che la costruzione del Wembley Stadium sia legata alla storia dell’Impero Britannico, né che essa coincida con il periodo di massima estensione dell’Impero stesso. Era il 1923 e lo stadio venne edificato per l’Esposizione dell’Impero, una sorta di EXPO con quasi 27 milioni di visitatori. Di quell’esposizione coloniale, inaugurata da re Giorgio V e di cui si rammenta la partecipazione di Agatha Christie, sono sopravvissute poche (ma buone) cose. Gli inglesi stessi hanno sempre mantenuto ben vivo il suo ricordo e intorno al British Empire Exhibition Stadium non c’è mai stata la polemica che oggi imperversa a Milano.
A inizio anni Novanta cominciò a circolare una voce che venne in seguito confermata: lo stadio di Wembley, quello che restava dell’Esposizione dell’Impero, sarebbe stato smantellato per fare spazio ad un nuovo Wembley Stadium. L’ultimo pezzo di Impero, insieme alla restituzione di Hong Kong alla Cina nel 1997, era destinato a scomparire per diventare qualcos’altro. Il nuovo Wembley Stadium si lega a un modello, quello della demolizione-ricostruzione, che arriva in prestito al calcio europeo direttamente dagli USA. Il Madison Square Garden, per esempio, nel corso di 150 anni di storia è stato demolito e ricostruito ben tre volte. Alla fine dei Novanta Wembley, in linea coi tempi, si apprestava ad abbandonare l’aurea imperiale per entrare nello spirito del tempo mediante una semplice operazione di speculazione edilizia: lo stadio, con le sue torri gemelle, venne abbattuto a vantaggio di un’immagine architettonica globale firmata dall’archistar Sir Norman Foster.
Per celebrarne la storia bastò invece un’operazione diversa: a pensarci furono i copywriter che organizzarono la campagna promozionale di Euro 1996, il cui tema Football Comes Home diceva molto più di quanto lasciasse intendere. Nel British Empire Exhibition Stadium si giocò la finale di quell’edizione degli europei in cui una Repubblica Ceca fresca di indipendenza e di nazionale tutta sua stupì il mondo – e Arrigo Sacchi – arrivando in finale, e venendo battuta solo dalla caparbietà di Oliver Bierhoff. Ma quello non fu l’ultimo atto di Wembley. O meglio, fu solo uno tra gli ultimi atti: alla notizia dello smantellamento, giocare al Wembley Stadium divenne come officiare un rito funebre in cui le parole “ultimo”, “storia” e “tempio” venivano saccheggiate come poche altre. Per qualche anno, infatti, ogni partita giocata a Wembley sembrava essere l’ultima, anche se la vera ultima partita di calcio a Wembley fu quella tra Inghilterra e Germania, valevole per le qualificazioni ai mondiali di Corea e Giappone 2002 e, come sempre, vinta dai tedeschi con goal di Dietmar Hamann.
Ecco, quindi, che la storia degli ultimi dieci anni del vecchio Wembley Stadium diventa la narrazione ricorsiva dell’ultima occasione, una montagna di ultime sigarette fumate e sistematicamente riaccese. A questo gioco dell’ultima occasione partecipa anche il calcio italiano, che, con i primi emigranti in Inghilterra (Vialli, Zola, Di Matteo e Ravanelli) e con i trasferimenti di calciatori dalla serie A alla Premier, inizia un processo di familiarizzazione con tutto ciò che è british e con il peso della storia e della lingua inglese. Si racconta che Ruud Gullit rimase alquanto deluso nel vedere che lo stadio utilizzato dal FC Wimbledon, il Selhurst Park, non fosse all’altezza delle sue aspettative, confondendo evidentemente Wimbledon con Wembley.
Tra i nostri ultimi c’è di certo il gol di Di Matteo nella finale tutta “italiana” di FA Cup tra Chelsea e Middlesbrough del 1997. L’italo-svizzero scende palla al piede per oltre trenta metri e lascia partire un tiro che tocca la parte inferiore della traversa e finisce in rete. Nel rivedere l’azione del goal non si resiste alla tentazione di gridare “chiudete, chiudete” ai quattro di difesa del Middlesbrough, che lasciano talmente tanto spazio a Di Matteo che, al momento del tiro, potrebbe ancora avanzare indisturbato per altri tre o quattro metri.
Senza seguire un ordine cronologico, poi, potremmo passare al gol di Batistuta nella partita di Champions League tra Arsenal e Fiorentina del 1999 – in quegli anni l’Arsenal giocava le partite casalinghe di Champions a Wembley perché, per motivi di sicurezza, non poteva utilizzare l’Arsenal Stadium di Highbury. Dopo uno scambio ravvicinato con Enrico Chiesa a centrocampo, il tedesco della Fiorentina Jörg Heinrich percorre indisturbato quaranta metri palla al piede. Il gol di Batistuta è praticamente una lavatrice scagliata in area di rigore, un tiro che, per potenza, giustifica ampiamente il rating di Batistuta nell’allora neonato Pro Evolution Soccer. L’azione. però, sottolinea nuovamente i limiti tattici delle squadre inglesi: l’Arsenal è certamente una buona squadra e la linea difensiva composta da Lee Dixon, Nigel Winterburn, Tony Adams, Martin Keown, e protetta da un certo Patrick Vieira, è migliore di quella del Middlesbrough che non chiude su Di Matteo, ma, nonostante tutto ciò, Heinrich avanza come un hippy felice tra i campi di grano. Se non tira direttamente in porta è solo perché Trapattoni gli ha detto mille volte di non buttare via il pallone se nei paraggi c’è Batistuta. Il 17 viola lancia, così, verso la fascia destra e Batistuta, dopo un controllo non perfetto, abbassa corpo e testa per proteggere la sfera, scaricando in porta una sassata che brucia i baffi del vecchio Seaman.
Il penultimo tra gli ultimi di questa serie è forse quello più noto: siamo nel febbraio del 1997 e a Wembley Inghilterra e Italia giocano la prima partita di qualificazione ai mondiali di Francia ’98. Cesare Maldini gioca con uno spirito tattico pre-copernicano e la partita si vivacizza solo grazie alla qualità e alla voglia di mettersi in mostra di Gianfranco Zola. L’Italia rinuncia a giocare e l’Inghilterra non fa che lanciare verso Alan Shearer, che conquista una marea di falli di posizione ma poco altro. Per il resto, Le Tissier si fa murare in aria poco prima del vantaggio italiano e non riesce mai ad essere pericoloso al cospetto di una difesa composta da Maldini, Ferrara, Cannavaro e Costacurta. I soli a saltare sistematicamente l’uomo sono il duo di fascia McManaman e Beckham. Il gol arriva grazie a una bella giocata di Zola su lancio preciso di Costacurta da metà-campo e alla staticità della linea difensiva inglese, con Pierce, nettamente fuori posizione, che si fa scavalcare e Campbell che, costretto a rincorrere in diagonale lo stop a seguire di Zola, non riesce a stare al passo del fantasista sardo.
L’ultimo degli ultimi è un gol che chiude l’epoca della coppa Anglo Italiana e che assegna per sempre il trofeo al Genoa. Alla fine della stagione 1995/1996 la competizione tra le migliori squadre della Serie B e le migliori della Division One inglese viene interrotta definitivamente: la finale di Wembley tra Genoa e Port Vale sarà ricordata come l’ultima in assoluto. La cronaca della gara racconta di un Genoa che, allenato da Gaetano Salvemini, si afferma per 5 reti a 2 con gol di Fabio Galante, tripletta di Gennaro Ruotolo e goal finale di Vincenzo Montella, nella sua prima vita genovese e non doriana. Il suo gol arriva con un’acrobazia in semi-rovesciata in cui l’attaccante campano colpisce il pallone dall’alto schiacciando la sfera in porta, sul palo lontano. Il difensore del Port Vale fissa prima la traiettoria del cross dalla sinistra, poi accompagna con gli occhi la caduta schiena/sedere di Montella e solo quando il suo portiere raccoglie la palla in rete capisce che il Genoa ha segnato nuovamente e che è tempo chiudere il sipario sulla coppa.
Tutti e quattro i gol nascono da azioni in cui le difese sono schierate, nessun contropiede, nessuna superiorità numerica, nessun infortunio difensivo. Siamo giunti alla fine dell’impero, al piccone su Wembley, alle responsabilità dei reparti difensivi inglesi e ai meriti degli attaccanti sguscianti. Si chiude l’epoca delle torri e di Wembley, del tempio del calcio e delle penetrabili difese dell’impero. Tutto molto velocemente tutto senza accorgercene, con buona pace dei confini dell’impero e di sua maestà la regina.