Ansa, 19 marzo 2016
È morto Renzo Ulivieri. L’ex-allenatore e presidente dell’Assoallenatori si è spento nella sua casa di San Miniato, per cause ancora da chiarire. Nato nel 1941, ha allenato Perugia, Sampdoria, Modena, Bologna, Napoli, Parma e altre. Dal 2014 il suo impegno si è diviso tra il coordinamento della Assoallenatori e la guida di due squadre di calcio femminile, la Scalese e il Pontedera.
Libero, 20 marzo 2016
Renzo Ulivieri, il Lenin del calcio italiano, è morto ieri nella sua casa di San Miniato, nella rossa Toscana. Militante del PCI negli anni Settanta e Ottanta, post-comunista nei Novanta, la sua parabola calcistica è sempre stata caratterizzata da forme radicali di militanza. Il compagno Ulivieri non si accontentava di mostrare ai giornalisti, durante le interviste, la tessera del partito, ma desiderava indottrinare chiunque gli stesse vicino, parlando per ore della necessità di un calcio proletario e cooperativistico che superasse l’individualismo borghese e lo show business sportivo.
Chi era, secondo Ulivieri, il principale responsabile di questo mutamento? Silvio Berlusconi, ovviamente. L’ossessione berlusconiana del tecnico di San Miniato arrivò al proprio culmine nel 2013, quando disse che il Milan aveva sconfitto il Barcellona per 2 a 0 proprio perché Allegri non aveva dato retta al Presidente. Ciò che non può sfuggire ora è la strumentalità di una simile dichiarazione. Ulivieri la rilasciò via facebook (anche i comunisti, ormai, hanno abbandonato il ciclostile!) il 22 febbraio del 2013, a due giorni dalle elezioni che avrebbero sancito la forza del Presidente, l’inconsistenza del progetto politico di Bersani e l’importanza dei Cinque Stelle: in quelle elezioni, Renzo il Rosso era uno dei candidati presenti nelle liste di Sinistra, Ecologia e Libertà.
Insomma, un altro caso in cui un comunista cercava di sfruttare il proprio ruolo di presidente dell’Assoallenatori per fini politici: un ennesimo tentativo di occupare manu militari la casamatta del potere calcistico, che, peraltro, è sempre stata in mano alle sinistre. Fortunatamente, in quella Caporetto della sinistra, Ulivieri non venne eletto, rimanendo bloccato negli angusti spazi dell’ufficio del sindacato degli allenatori. Come abbiamo saputo da fonti autorevoli, dopo la notizia della mancata elezione, si fece crescere capelli e barba e, vestito come il compagno Folagra, convocò i propri collaboratori per dire loro questo: “Ci vuole la formazione di gruppi spontanei… dobbiamo pensare a una co-gestione che sia proliferante in senso totale, capito? Comitati di quartiere con formazioni alternative precise, sulle quali noi dobbiamo puntare, chiaro? È una prerogativa precisa, perché è a monte che noi dobbiamo distruggere!”.
Chiaramente, la creazione di comitati calcistici di quartiere incontrò l’opposizione della maggioranza dei cittadini italiani, che, come al solito, ricacciarono il comunista sulla sua poltroncina da quadro sindacale, mettendo fine alle sue sfuriate filoproletarie e al suo autoritarismo cooperativista. La caduta del Muro, tuttavia, era già stata annunciata dai fatti di Cecoslovacchia bolognesi, quando non solo la tifoseria, ma anche il presidente del Bologna, Giuseppe Gazzoni Frascara, gli si erano rivoltati contro. Il pomo della discordia era il ruolo di Baggio, la cui presenza scompaginava gli schemi previsti dal grigio collettivismo di Ulivieri.
Le accuse al Codino erano le solite: non pensava alla squadra, non rientrava in difesa, credeva di essere migliore degli altri. D’altra parte, senza di lui, il Bologna arrancava, come dimostrava quel Bologna-Juventus in cui Baggio non si presentò nemmeno in tribuna. I rossoblu persero per 1 a 3: per la prima volta in tre anni, Ulivieri venne contestato dal pubblico e, nei giorni seguenti, rosicò talmente tanto che, nello studio del dirigente del Bologna Cipollini, per poco non venne alle mani con Petrone, il manager di Baggio. Si dice che fu lo stesso Cipollini a separarli.
Baggio disse che Ulivieri soffriva di protagonismo. Il sostenitore del calcio proletario, il Che Guevara di San Miniato, si comportò, dunque, come un piccolo Stalin da spogliatoio: come confermato dal Codino, il culto della personalità di Ulivieri fu sempre assoluto e indiscutibile. Chi metteva in questione i suoi atteggiamenti si ritrovava al centro di un processo contro il popolo intentato dai pasdaran più vicini al toscano (Paramatti, Scapolo, Torrisi, Nervo etc.).
Vendicativo come l’uomo d’acciaio del comunismo, il compagno Ulivieri si premurò sempre di ammannire al pubblico l’immagine mitterandiana della force tranquille in salsa nostrana: cappotto portafortuna anche d’estate, sigaro in bocca e un sorriso calmo capace di tranquillizzare anche la tifosa più uterina. Questo sorriso, però, poteva talvolta nascondere una battuta sgradevole, in grado di offendere chi non la pensava come lui. Come quando, appena arrivato a Bologna, incontrò il capitano, Marco De Marchi, che, nel 1993 aveva scelto il Bologna in C1, mettendo da parte, a 27 anni, una promettente carriera in Serie A. Ulivieri lo incontrò in sede, dicendogli: “Bellino, che bei capelli che hai. Senti, m’hanno detto che l’anno scorso hai fatto cacare. Con me gioca solo chi se la suda, la paga”. De Marchi, in un primo momento, reagì male. In seguito si adeguò al mito del barbudo di San Miniato, diventando uno dei membri effettivi del suo direttorio.
La comunità calcistica dei sinistrati perde così una delle sue principali figure di riferimento: malato di protagonismo, nevrotico, ossessionato da Berlusconi e dalla gestione del potere, attento manipolatore dei propri calciatori, Ulivieri, nel corso della sua carriera, ha diviso il mondo del calcio in due. Da una parte, chi l’ha amato incondizionatamente s’è sempre comportato da sciura benpensante che legge Repubblica e si commuove per il destino degli immigrati clandestini; dall’altra, chi ama la libertà e il bel gioco non ha mai sopportato la sua sicumera. Ma d’altra parte, anche nel calcio, chi può dirsi davvero libero è sempre in netta minoranza.